La tradotta che parte da Pechino

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La tradotta che parte da Pechino CorriereAlIn questi giorni sui nostri quotidiani sono apparse alcune notizie dall’estero che dovrebbero destare la nostra attenzione e preoccuparci sul futuro dei nostri giovani.

Sono in atto alcune rivoluzioni mondiali che ci colpiranno, magari di striscio, ma che sono destinate a mutare per sempre il modo di concepire il lavoro non solo da noi ma nel mondo intero, a cominciare dai paesi sviluppati, quelli in grado di fare investimenti giganteschi nei settori di punta dell’economia.

Quali saranno questi settori?

In gran parte sono già noti, come l’innovazione tecnologica e digitale, la robotica e l’intelligenza artificiale applicata, il risparmio energetico, il controllo delle risorse ambientali accessibili con uno sviluppo eco-compatibile che non comprometta il futuro del pianeta, ma ecco che tutto ciò viene di colpo messo al servizio di un primato mondiale che dagli attuali detentori pare destinato a passare di mano a vantaggio di nuovi pretendenti.

I cinesi hanno in fase avanzata un progetto di costruzione di una linea ferroviaria di dimensioni gigantesche, di oltre 13.000 kilometri, che partendo da Pechino attraverserà tutta l’Asia fino al Mar Caspio e poi, dopo il Kazakistan e la Russia, passerà per la Bielorussia, la Polonia e la Germania, per diramarsi infine in Francia ed in Spagna.

E l’Italia? Nonostante i ritardi con i problemi dei trafori ferroviari di cui si parla troppo spesso in senso puramente ideologico, pare che qualcosa si sia già mosso, se è vero che i cinesi stanno già investendo sul nodo ferroviario di Mortara, puntando a farne un centro logistico di importanza internazionale, collegato velocemente con Milano ed il resto del paese fino alla punta estrema della Puglia.

Il viaggio delle merci dalla Cina alla Germania (e viceversa) per ferrovia dovrebbe durare allo stato attuale sedici giorni, contro i quaranta/sessanta necessari per via marittima.

Ma l’attenzione dei cinesi si rivolge anche ai porti europei, in alcuni dei quali, come il porto greco del Pireo, hanno già fatto investimenti destinati a renderlo il maggior scalo merci del Mediterraneo. Poi hanno iniziato ad investire anche sul porto norvegese di Kirkenes e quello russo di Arcangelo, sulla rotta dell’Oceano Artico, su quello lituano di Klaipeda sulle rotte del Baltico e qualcos’altro ancora.

Inoltre, nonostante che possa apparire a prima vista un controsenso, trattandosi di un sistema economico basato su una manodopera a basso costo praticamente inestinguibile, si stanno muovendo in prima fila, facendo concorrenza a colossi americani del calibro di Google, IBM, Microsoft e altri big della Silicon Valley californiana, che sembrano segnare il passo, con massicci investimenti di denaro negli studi avanzati sull’intelligenza artificiale applicata al mondo del lavoro.

Il problema è per loro abbastanza semplice: non essendo condizionati da logiche di profitto immediato, come lo sono invece i concorrenti americani ed europei, i cinesi stanno puntando decisamente sulle scelte di lungo periodo, potendo aprire il loro portafoglio con visione lungimirante, verso spazi di ricerca che agevolino la futura rivoluzione industriale che si intravvede all’orizzonte. Lo sforzo innovativo è per di più sostenuto da un sistema scolastico oltremodo moderno. Risulta per lo meno inconcepibile che proprio i loro maggiori concorrenti, gli Stati Uniti, abbiano scelto in questo frangente di affidarsi ad uno come Trump che pare prediligere scelte poco lungimiranti, come quella protezionistica a difesa di interessi di ristrette lobby preoccupate dei loro guadagni immediati, di finanza speculativa e poco produttiva. E’ paradossale che mentre la Cina si apre finalmente ad una soluzione graduale del problema del risparmio energetico e della riduzione dell’inquinamento, l’America di Trump pensi di fare dei passi indietro, tornando al carbone, sostenendo le lobby petrolifere e tutte le altre scelte economiche illusorie di un passato in cui lo spreco delle risorse era alla base dello sviluppo del prodotto interno lordo.

Nel contempo però nella California di Elon Musk, il visionario fondatore di Tesla, la casa automobilistica leader del settore delle auto elettriche, sta profetizzando che in un futuro oltremodo vicino ogni macchina sarà a guida computerizzata e potrà guidarsi da sola, arrivando a dire che fra vent’anni avere un’auto tradizionale sarà come tenere un cavallo in garage. Come si vede tra la sua visione del mondo e quella di Trump si sta aprendo un solco incolmabile.

Il mondo occidentale, e l’Europa in particolare, si sta chiudendo a riccio, ciascuno nel suo “particulare”, in difesa di interessi solo apparentemente consolidati, minati da populismi antisistema che non agevolano la sfida del cambiamento.

Uno dei maggiori imprenditori cinesi, abituato a trattare nel mondo economico americano, ha mandato un preciso avvertimento sulla necessità di affrontare per tempo, con strumenti politici precisi ma soprattutto strumenti sociali adeguati il prossimo rischio che lo sviluppo incontrollato della tecnologia sconvolga l’ordine sociale di parecchi paesi, i cui governi potrebbero essere travolti da una crisi occupazionale di dimensioni inimmaginabili.

Siamo quindi avvertiti e non possiamo far finta di niente.

Altre campane hanno già cominciato a suonare l’allarme, ma i nostri governanti europei fanno finta di essere sordi. In Italia poi il potere politico ed ancora di più quello sindacale si stanno muovendo rispettando riti sorpassati, come se il mondo industriale fosse ancora quello descritto dai film di Fantozzi, con la Mega ditta, carica di personale impiegatizio demotivato, schiavizzato e assenteista, che portava il nome impronunciabile di “Italpetrolcementermotessilfarmometalchimica”, governata dal mega direttore galattico di cui si favoleggiava l’esistenza, ma che nessuno aveva mai osato guardare.

Il rag. Fantozzi è morto, il rag. Filini pure, la Mega ditta non esiste più, dobbiamo convincercene tutti.

Se non si provvede in qualche modo a cambiare lo stato delle cose, ma non nella
direzione di nostalgie di un passato che ci ha già regalato sciagure e dolori e di cui peraltro non siamo stati ancora del tutto vaccinati, né nella direzione di scorciatoie populiste di scuola sudamericana (vedete l’esperienza venezuelana di questi giorni), il nostro destino sarà quello di andare a piedi scalzi ad aspettare un treno che passerà magari anche dalle nostre parti, ma senza fermarsi per caricare le persone. Ci vuol altro che centri commerciali stracarichi di roba cinese!

Parafrasando una vecchia canzone degli alpini: “La tradotta che parte da Pechino, a Milano non si ferma più, ma la va diritta altrove….., senza offrire futuro per la nostra gioventù”!

Fin che siamo ancora in tempo, mettiamo mano ad una revisione profonda del cosiddetto “contratto sociale”, partendo dalle norme solidaristiche suggerite dai moderni costituenti, in una visione europeista, ma anche tenendo conto degli errori del passato.

Luigi Timo