Di Sergio [Il Superstite 335]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 
Nell’estate del ’98 conobbi Sergio Altieri di persona. Come autore lo conoscevo sin dagli anni ’80 quando un libro dal titolo Città oscura mi conquistò, perfetto equivalente letterario del noir metropolitano, screziato di fantastico e horror, del miglior Carpenter, quello di 1997 Fuga da New York e Distretto 13 le brigate della morte. Da quel momento non mi feci mancare nulla di Sergio e i successivi Alla fine della notte, L’occhio sotterraneo, Corridore nella pioggia, Scarecrow mi confermarono che quello scrittore stava diventando un mito personale perché dava corpo con una prosa secca e paradossalmente musicale ad alcuni tormentoni del mio immaginario che con evidenza erano tali anche per lui.

Nel ’98 si era alla seconda edizione del festival letterario Chiaroscuro, ricca di ospiti internazionali che arrivavano ad Asti un po’ da tutto il mondo: personaggi come Jerome Charyn, Daniel Chavarria, Luis Sepulveda, Paco Ignacio Taibo II, Donald E. Westlake, e tra gli italiani, Bruno Arpaia, Marco Buticchi, Enrico Deaglio, Ivan Della Mea, Gianni Minà e Laura Grimaldi. E appunto Sergio, presentato nel cartellone con il suo nome “da scrittore”: Alan D.

Mi aggiravo appunto un pomeriggio in attesa di un evento nella via antistante la biblioteca consortile quando, accompagnato da Laura Grimaldi, mi si avvicinò un uomo alto e ben piantato, folti baffi, che con voce baritonale mi fece un affondo indimenticabile: Ciao, sono Sergio Altieri, vorrei conoscerti, ammiro molto il tuo lavoro.

Adesso una pausa e una precisazione: è impossibile per me raccontare di Sergio senza Di Sergio [Il Superstite 335] CorriereAldivenire autoreferenziale. Lo è per me come per molti altri che lo hanno conosciuto. Quindi corro il rischio e respingo al mittente le accuse – non dette, ma in silenzio formulate – di mettere il proprio io al centro di un “coccodrillo”. Non è proprio il mio caso perché l’improvvisa morte di Sergio, avvenuta nella notte tra il 15 e il 16 giugno scorso mi ha travolto come un TIR. Sono figlio unico e il pomeriggio del 16 ho capito che significa perdere un fratello.

E, tornando al ’98, dato che mi stava parlando uno dei miei “autori-mito”, non è che il mio lavoro in quel momento fosse chissà che cosa. Più che altro saggistica, per capirci, ma di romanzi cartacei solo uno, uscito in sordina. Anzi, proprio di nascosto. Per dire che come autore ero proprio di nicchia, se non di loculo – ed ero già piuttosto vecchio, vicino al mezzo secolo.
Insomma, non potevo che rispondergli così: Come sarebbe a dire che tu ammiri il mio lavoro? Tu sei l’uomo di Città oscura e ho detto tutto!

Ci stringemmo la mano (la mia scomparve quasi nella sua) e diventammo grandi amici, veri. Proprio per simpatia, per gusti personali molto affini (non tutti, su Tarantino e Lynch la pensavamo in modo diametralmente opposto) e per condivisa filosofia della vita. E so bene che questa storia la possono raccontare in tantissimi perché quello che vi ho descritto era il normale approccio di Sergio. Lui, importante per davvero, faceva sentire importante il prossimo.
Anche perché in lui viveva l’anima di un genuino talent scout, sempre alla ricerca di talenti “sodali” e a lui simili non tanto da poter lanciare nel mondo dell’editoria quanto per “fare delle cose assieme”.

Ma qui non voglio occuparmi della storia pubblica. I ricordi più belli appartengono al periodo “di Bassavilla”. Per colpa mia Alessandria la chiamava con il nome d’arte e io ero “il Palero di Bassavilla”. Veniva spesso a trovarmi – anzi a trovarci, con Marenzana, Bona, Claudia Salvatori, Edo Rosati, Fabiana e altri – e io qualche volta lo ricambiavo a Milano. Letteratura, libri, editoria occupavano una piccola percentuale dei discorsi intrattenuti a tavola. Si parlava – io tentavo di farlo sempre in modo scherzoso perché nulla era più appagante della sua risata – del mondo che deragliava sempre più, nutrendo così la sua straordinaria letteratura e le nostre più modeste, sempre comunque declinate all’ombra dell’Orologio dell’Apocalisse.

Ci sono cose che restano nella memoria a proposito di un amico che se ne va per sempre. Che se ne va, come lui, all’improvviso, quasi a tradimento (per capirci). La sua risata, come ho già accennato, e la sua voce. Sergio era dotato di una voce meravigliosa. Avrebbe potuto fare nella vita l’attore, il doppiatore, con quella voce che si ritrovava. E poi, scendendo nell’ovvio che sanno tutti quelli che l’hanno conosciuto: la bontà, l’altruismo, la sua concezione di “consorteria letteraria”, il metterci la faccia sempre.

Da quel giorno ad Asti ho di sicuro avuto un motivo in più per non perdermi un libro di Sergio. Quelli degli ultimi anni sono tutti autografati. L’ultimo, Magellan, mi è giunto una decina di giorni prima della sua morte con dedica e firma. E al momento mi fa molto male aprire quelle pagine.
L’ho sentito al telefono una settimana prima del 16 giugno. «Ehi, man, ci vediamo a Bassavilla!».