Maria, la “Smorsacandeila” [Il Superstite 334]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 
Alessandria, 1960. I grigi retrocedevano in serie B, Gianni Rivera era stato da poco venduto al Milan tra le urla di disappunto dei tifosi e in alcune zone periferiche si era ripristinato il pattugliamento a cavallo dei carabinieri nonostante l’evidente e costante aumento del traffico veicolare.

Furono proprio due carabinieri a scoprire una mattina in Spalto Marengo delle parti di corpo umano ritenute lì per lì come indizi inequivocabili di un turpe e macabro assassinio. Sui giornali nei giorni seguenti si pubblicarono resoconti di presunte analisi scientifiche forse in grado, stante dichiarazioni “ufficiose” delle forze dell’ordine, di dimostrare che tali parti anatomiche – cranio, sterno, tibie e ossa più piccole di una persona molto giovane – erano state utilizzate da ignoti medici per misteriosi e imprecisati esperimenti e gettate poi via. Ma diversa risultava la versione popolare, quella che si sussurrava a mezza voce nei bar e nelle botteghe di alimentari.

Allora Spalto Marengo stava proprio in periferia. Non come oggi che è trafficata più del centro e circondata da decine e decine di parallelepipedi di cemento armato. Nel 1960 la campagna si apriva a pochi metri dagli “spalti” che cingevano la città secondo l’antica regola dell’insediamento militare. Nella verde e salubre corona che ossigenava la città si contavano, a decine, le cascine, le case coloniche, i granai e i campi coltivati.

E a un tiro di schioppo da Spalto Marengo, più o meno alle spalle del contemporaneo Maria, la "Smorsacandeila" [Il Superstite 334] CorriereAlTennis Club Borsalino e in prossimità del ponte sul Bormida, si trovava la casa di Maria la smorsacandeila, letteralmente “la spegnicandela”, soprannome escogitato dalla malevola lingualunga popolare che così la etichettava in quanto a detta di chiunque dedita al mestiere più antico del mondo.

Non solo prostituta (e piuttosto fuori dagli schemi come professionista del sesso perché, secondo i bene informati, Maria copulava soltanto stando di sopra – questa la spiegazione del soprannome), ma pure, ancor più blasfema e impenitente, esperta nel raccogliere piante officinali che crescevano in riva al fiume e a distillarne “rimedi” che poi tentava di regalare a conoscenti e a persone in difficoltà in cambio di un chilo di polenta o di una manciata di castagne.

Da qui, anche se si era appena inaugurato il favoloso e fondamentale decennio dei sixties, alla “nomea” di stréa (strega) il passo risultava men che breve perché le solite malelingue assicuravano, dati e testimonianze alla mano, che la smorsacandeila era in grado di arrecare al prossimo una scalogna mai vista con disgrazie a catena perpetua. Nessun contadino dei paraggi si sarebbe mai sognato di far transitare le proprie bestie vicino alla sua povera bicocca fatta di vecchie assi e fango rappreso: gli animali sarebbero morti nel giro di poche ore.
Nessun bambino godeva del permesso di andare a giocare in quel bel pezzo di prato vicino alla casa di Maria: gli sfortunati sarebbero stati colpiti da febbri misteriose in grado di condurli alla morte oppure sarebbero spariti per finire in qualche pentolone a lenta cottura. Per di più la sinistra fama della povera donna, in realtà il solito capro espiatorio dell’ignoranza collettiva, aumentava di giorno in giorno a causa del suo aspetto che andava in qualche modo “migliorando”, addirittura sembrando più giovane di quel che si era visto sino a poche ore prima.

Poi, una notte, a un paio di settimane dal macabro rinvenimento di Spalto Marengo, la baracca di Maria prese fuoco con lei dentro. La sfortunata bagasòn (pesante epiteto dialettale con cui la si appellava facendo riferimento alla sua esperienza professionale da nave scuola) morì all’interno, forse prima soffocata e poi arsa dalle fiamme. Sin qui la cronaca.

Ma le chiacchiere che giungevano alle orecchie di troppi raccontavano una storia diversa. Il giorno dopo il ritrovamento delle ossa qualcuno sosteneva che nella zona antistante il lungoBormida erano sparite due ragazzine. Non risultavano denunce ufficiali perché le adolescenti provenivano da cascinali pericolanti occupati abusivamente da “profughi” dell’Est europeo, ma le famiglie però non si davano pace e batterono palmo a palmo ambedue le rive del fiume dove la gente allora si recava per fare il bagno.
Qualcuno degli slavi andò a chiedere anche a Maria. Lei rispose di non saperne nulla, ma chi la vide confermò che la sua appariva più liscia e rosea, come ringiovanita.
Una notte, la figlia tredicenne di un cantoniere dell’ANAS che abitava con i genitori all’inizio del ponte sul Bormida si svegliò di colpo e scese dal proprio letto, uscendo all’esterno in camicia da notte in direzione del bosco vicino al fiume. La madre che in quel momento si trovava in cucina alla ricerca di un analgesico per il mal di denti, la vide transitare davanti alla finestra con lo sguardo rapito. Sembrava ipnotizzata, ammaliata. Così era in realtà, perché la ragazzina stava seguendo un suono melodioso che soltanto le sue orecchie potevano percepire. La donna urlò il nome del marito che accorse in pigiama, rendendosi conto subito della strana situazione. I due si buttarono fuori e raggiunsero la figlia, tentando in mille modi di fermarla e di trascinarla dentro casa. Ma non c’era verso: la forza della ragazzina risultava quasi centuplicata e, tra urla e strattoni, il cantoniere si ritrovò assieme alla moglie con le gambe all’aria sopra la nuda terra, mentre la figlia proseguiva il suo robotico cammino in discesa alla volta del lungofiume. Nel frattempo le urla concitate avevano svegliato gli abitanti delle varie baracche in riva al fiume, per la maggior parte coloro che la gente additava come “profughi”, uomini e donne che da parecchie notti dormivano con un occhio solo perché conoscevano meglio di tutti quel tipo di pericolo.

Così, mentre la ragazzina andava non curandosi di nulla in direzione della casa della smorsacandeila, i suoi genitori si ritrovarono circondati da gente straniera armata di forconi e di coltelli, qualcuno addirittura impugnante una pistola. Tutti che dichiaravano di volerli aiutare e che facevano capire, in un italiano stentato, che la colpevole di quegli accadimenti misteriosi era la strega che viveva in riva al Bormida.

Poi qualcuno urlò (“Guardate là!”), indicando una strana luce ondeggiante accanto a una grande quercia. Uomini e donne, in preda alla paura che rendeva tutti più aggressivi, si avvicinarono e videro Maria in piedi vicino all’albero mentre agitava un aguzzo e nodoso bastone dalla punta fosforescente in direzione della casa cantoniera. Chi s’intendeva di “certe cose”, riconobbe in quell’oggetto il cosiddetto “bastone del comando”, strumento in grado di emettere una luce soprannaturale e di ipnotizzare con musiche inesistenti potenziali vittime da far cadere in trappola.

Furia e panico prevalsero. La folla si scagliò in quella direzione. Il tipo che possedeva la pistola sparò e bucò Maria in un fianco. Lei cadde sull’erba, mentre il magico bastone le sfuggiva di mano. Mani brutali l’afferrarono e la trascinarono verso la sua casupola alle cui spalle si scoprirono due tumuli scavati di fresco con dentro mucchi d’ossa spolpate. La verità, orribile, non poteva essere negata, neppure se quelli erano gli anni Sessanta che stavano iniziando: la strega aveva fatto il suo mestiere, mangiando carne umana e bevendo il sangue di giovani ragazzine.
Così si diede corso alla giustizia sommaria senza che a qualcuno, italiani compresi, venisse in mente di chiamare i carabinieri. Maria fu prima bastonata e quindi scaraventata dentro il suo barachén. A questo si diede subito fuoco perché la smorsacandeila potesse giustamente morire come una strega di altri tempi, ovvero bruciata viva

Dalle fiamme che si levarono subito, troppo alte e con un anomalo colore verdastro, Maria fece udire la sua voce gracchiante, lanciando una maledizione contro i suoi aguzzini e la gente presente. Chissà se l’anatema sta funzionando?