Ai piedi dei ragazzi [Lettera 32]

Giuliano Beppedi Beppe Giuliano

 
“Molta gente pensa che io sia una scarpa. Sono sicuro che la maggior parte delle persone che hanno indossato negli anni le Stan Smith non sappia che ero un tennista, e che sono una persona reale.” (Stan Smith intervistato da Tennishead)
Ne parlavo coi miei figli, che hanno l’età giusta per indossare le Stan Smith senza sapere chi fosse lui. Dicevo loro che mi stupisce vedere tanti ragazzi con ai piedi le scarpe da tennis che portavo quando avevo la loro età e mi dilettavo con la racchetta.

Io pure immagino che la maggior parte di quelli che le indossano, oltre al nome Stan Smith difficilmente siano andati, e quasi nessuno sappia che sportivo era, quel signore che firma le loro scarpe di moda.
Anche perché l’anno d’oro dell’omone è stato il 1972, ben quarantacinque anni fa (e lui lo scorso dicembre ne ha compiuti settanta, di anni).

Alto più di uno e novanta, oggi la prassi o quasi tra i tennisti (Murray è più basso di  Ai piedi dei ragazzi [Lettera 32] CorriereAl 1 lui di soli due centimetri, e Djokovic di cinque), allora una caratteristica notevole che molto influenzava il gioco nell’era in cui la potenza non era certo il pregio peculiare dei giocatori, religiosissimo, oltre che per la vittoria di Wimbledon guadagnò grande attenzione (e stima) per come seppe esercitare le virtù cardinali in quello che, nella piccola storia del tennis, viene ricordato come “il festival del furto”.

Atto primo: erba sacra
Radi capelli biondi, baffetti, l’americano poteva sembrare un ufficiale dell’esercito britannico, quella domenica di luglio. Un enorme contrasto con il piccolo, furbo, scuro rumeno Ilie Nastase, il favorito del pubblico, uno che con la racchetta faceva quel che voleva ma molto spesso perdeva il controllo (“il folle Ilie Nastase – scrive Gianni Clerici in Wimbledon – riuscirà a non vincere il torneo, in una finale in cui l’insofferenza per una racchetta male incordata lo priverà di due set”).

Ai piedi dei ragazzi [Lettera 32] CorriereAl 2A Wimbledon si rispettava ancora la tradizione del riposo domenicale, e la finale era giocata il sabato della seconda settimana. Quell’anno per via della pioggia si dovette violare (per la prima volta!) la sacralità del settimo giorno, e i due finalisti poterono calpestare nel giorno del Signore (che immaginiamo tenesse per il suo fedelissimo Smith) la poca erba rimasta del mistico Centrale.
Mancavano parecchi australiani, banditi per diatribe organizzative nel giovane professionismo della racchetta (l’era “open” era iniziata appena quattro anni prima). Non c’era il doppio campione uscente John Newcombe, il più forte di tutti Laver, il vecchio Rosewall sempre all’inseguimento di un successo nel sacro tempio. A Wimbledon, nei suoi anni buoni, Stan Smith quando ha perso lo ha fatto solo con gli australiani, che allora dettavano legge. Insomma, oltre a Dio pure i parrucconi della federazione sembravano stare con lui.
Quando finalmente poterono sfilare dalle custodie i loro attrezzi di legno, Ilie Nastase la Dunlop e Stan Smith la Wilson che portava il suo nome (grande attenzione a quello che adesso chiamiamo marketing, l’omone, eh), l’americano aveva buone possibilità di vincere finalmente il torneo, quello che davvero consegna l’immortalità.

Come andó lo leggiamo nel racconto della penna del tennis, il divino Gianni Clerici: “Ilie Nastase, dopo aver regalato due set di handicap a Stan Smith, é riuscito a non vincere un quinto set memorabile, più volte a portata di racchetta. Non si contano gli scambi nei quali il lungo, goffo americano é stato portato a spasso dallo zingaro e, incredibilmente, graziato, per distrazione, bizantinismo, scialo.”

Atto secondo: terra rossa
Entra in scena, con tutta la sua dominante fisicità, Ion Tiriac l’orso dei Carpazi. Ai piedi dei ragazzi [Lettera 32] CorriereAlL’autoproclamato “miglior tennista al mondo che non sapeva giocare a tennis”.
Nell’immaginifica descrizione del suo aspetto che si deve al New York Times: “black Brillo-pad hair on his wrecking-ball-size head” (credo sia facilmente comprensibile, aggiungo solo che Brillo-pad è la paglietta con cui freghiamo le stoviglie quando l’unto non vuole andare via). Descrizione che si ferma appena prima dei suoi terrificanti baffoni a manubrio da spietato proprietario di circo: e lui diventerà qualcosa del genere, nella sua successiva esistenza miliardaria (oggi è l’uomo più ricco di Romania) anche se domerà non animali ma tennisti, primo tra tutti Becker.

In quel 1972 la Coppa Davis, all’epoca importante come Wimbledon o quasi, per la prima volta, con l’aiuto di un cambio delle regole e del dipartimento di stato americano, portò la finalissima al di fuori di una delle quattro nazioni sede dei tornei del Grande Slam, fino a Bucarest, capitale della nazione che gli americani immaginavano come grimaldello per scardinare la morsa rossa sovietica.

Nastase e Tiriac avevano messo la Romania sui radar del tennis, arrivando nel ’71 fino alla finalissima, persa contro gli USA di Stan Smith, reduce dalla vittoria negli US Open, ancora giocati sull’erba di Forest Hills.
L’intera Romania si fermò per l’evento sportivo più importante della sua storia (all’epoca la Comaneci era ancora una bambina che si esercitava alla trave in una piccola palestra, mentre Ducadam parava rigori alle scuole medie).

Si giocò poche settimane dopo la strage alle Olimpiadi di Monaco, con grande paura per atti terroristici tanto che gli americani rinunciarono a Solomon, di religione ebraica, schierando come secondo singolarista Tom Gorman che il primo giorno perse contro Tiriac, in una partita in cui i giudici di linea facevano quello che voleva il rumeno, come tuttora ricorda il giudice arbitro, l’argentino Enrique Morea, un signore ora più che novantenne, di grande rettezza, che era stato anche buon giocatore lui stesso, vincitore del doppio misto al Roland Garros nel 1950, qualche anno dopo Bucarest giudice arbitro anche nella nostra finale cilena di Davis.

Il doppio andò via facile per gli statunitensi, così la partita decisiva la giocarono proprio Tiriac (di cui si narravano cose misteriose e oscure, per esempio che fosse un membro della Securitate, la terribile polizia segreta di Ciausescu) e Stan Smith. Di nuovo una domenica, tre mesi dopo Wimbledon.
Il gioco dell’omone lo rendeva vulnerabile sui lenti campi in terra, l’attacco psicologico prima che tennistico di Tiriac, supportato dal pubblico, che aveva funzionato contro Gorman, avrebbe fermato anche lui?
Il primo set andò al rumeno, 6-4, e Smith faticò anche al servizio in apertura del secondo, finché non riuscì a ottenere da Morea la correzione di una chiamata dei giudici di linea, ribatté la prima con un ace, e prese il controllo sulle tattiche del rumeno: i due successivi set furono suoi.
Però nel quarto “il festival del furto” si perfezionò al punto che l’americano, per una volta, perse le staffe (chissà come lo guardava dall’alto, il suo Dio, forse perfino lui sorpreso), e il set 6-2.

A questo punto tutto sarebbe potuto succedere, non fosse che la Wilson col suo nome marcato sopra la impugnava un omone, con ai piedi le scarpe che oggi portano tutti i ragazzi, e con Dio saldamente al suo fianco. Smith prese a giocare ben lontano dalle linee, impedendo ai giudici ulteriori furti, non sbagliò più niente e il 6-0 fu definitivo come il “I lost a lot of respect for you today” (ho perso il rispetto per te, oggi) con cui salutò l’avversario stringendogli la mano.