L’universo di Dario Argento [Il Superstite 321]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 
La recente uscita di un nuovo libro sul cinema di Dario Argento, Universo Dario Argento di Alberto Pallotta e Giovanni Aloisio pubblicato da Ultra, diventa il pretesto per ripercorrere con la memoria decenni, cambiamenti, trasformazioni e mutazioni, le mie in primo luogo. Perché, al di là delle dispute pro o contro che possono suscitare gli ultimi titoli del nostro, un dato è certo, almeno per me: il cinema di Argento mi ha accompagnato per un lungo arco di vita, un appuntamento fisso con cadenza irregolare anche se va ricordato che quando si dice “il cinema di Argento” il riferimento diventa ben più ampio che non i suoi 19 film (e i suoi diversi TV movie).

Infatti, come negare che sia in larga parte “suo”, per capirci, tutto il vastissimo filone del thrilling all’italiana degli anni ’70, quello dei titoli animaleschi (a volte veri e propri scippi di situazioni e intrighi); come non riconoscere la sua fondamentale presenza nella svolta “zombesca” del cinema di George Romero; e più in generale la sua influenza in chiave “onda lunga” su tanto cinema thriller horror dell’ultimo trentennio?

Andiamo per gradi. Avevo vent’anni quando vidi per la prima volta L’uccello dalle L'universo di Dario Argento [Il Superstite 321] CorriereAlpiume di cristallo e di certo allora non potevo immaginare che ne avrei presentato, assieme ad altri illustri relatori, la copia restaurata in quel di Genova al cinema City trentasei anni più tardi. Nel ’70 ero soltanto un giovane appassionato che non si perdeva un Hammer, un “Edgar Wallace presenta” o qualsiasi prodromo della svolta, da Bava a Umberto Lenzi, da La lama nel corpo a La morte ha fatto l’uovo, e figuriamoci se mi perdevo un film con quel titolo e quella locandina. Non ci voleva un indovino per pronosticare al regista un brillantissimo avvenire sulla falsariga del suo primo film, un thriller già intimamente contaminato con l’horror.

Data la risposta ampiamente positiva del mercato, nel giro di nemmeno 2 anni Argento tornò con Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio, affascinanti meccanismi a loro modo minimalisti, mentre attorno esplodeva il genere derivativo con titoli che citavano animali a tutto spiano (il cosiddetto filone “zoonomico”).

Dopo la parentesi “storica” con Le cinque giornate si dovette attendere al ’75 per gustarsi il ritorno di Argento al thriller (al “suo” thriller) e mai attesa fu così ben ripagata: Profondo rosso resta, a mio parere, uno dei suoi due indiscutibili capolavori – l’altro è Suspiria – , a sua volta foriero di una ripresa imitativa del genere (Enigma rosso, Solamente nero, Macchie solari, etc…), giocata sul cromatismo nei titoli.

Io avevo 25 anni, la stessa fidanzata con la quale avevo visto L‘uccello dalle piume di cristallo e Profondo rosso, con quella sua meravigliosa pretestuosità nella declinazione della “bella arte” dell’omicidio, mi sembrava la perfetta metafora filmica della situazione sociale del periodo: lo stragismo aveva colpito durissimo a Brescia e sull’Italicus e la svolta omicida degli anni di piombo era alle porte. La morte prematura e violenta come segno della cronaca e non solo di un genere para-fantastico.

Le circostanze sociali s’incupirono, peggiorarono. Il tasso di violenza “praticata” nel mondo esterno – come tanti tentavo di difendermi nel mio mondo interno dove l’immaginario poteva far di peggio, ma rimaneva un innocuo discorso ludico… – aumentò e Argento nel ’78 irruppe positivamente a gamba tesa nel sanguinoso mondo di George Romero, apportando più di un contributo a Dawn of the Dead, in Italia distribuito come Zombi. Presenza importante a tal punto che molto pubblico distratto, di quello cui poco frega dei titoli, lo prendeva per un film di Argento.

Io ero entrato nel mondo del lavoro e scrivevo per “Robot”, diventando amico di Vic Curtoni, grande appassionato di horror che però non si filava più di tanto il regista di Roma. A me invece Suspiria aveva fatto sballare, quasi più di Profondo rosso, e attendevo, anche per lanciare il critico nuvolone che sonnecchiava da qualche parte, gli sviluppi. Che sarebbero arrivati nel 1980 con Inferno, quando scrivevo per “Aliens” (sempre con Curtoni al comando).

Il dichiarato sequel di Suspiria non mi convinse, ma qui non è sede perché mi sono prefisso di rimarcare l’effetto da “macchina del tempo” che mi hanno procurato Pallotta e Aloisio. Da bravo curatore del settore cinema decisi di dedicare su “Aliens” uno special al film, comunque importante e atteso, e proposi 5 recensioni in contemporanea sull’opera sulla falsariga di una non dimenticata rubrica di “Robot”, quella che si chiamava “Contropinioni”: dei cinque, non uno la pensava alla stessa maniera, ma fu soprattutto Curtoni ad andarci giù pesantissimo, alla sua indimenticabile maniera quando gli giravano gli zebedei.

Poi la vita irruppe e deflagrò, “Aliens” chiuse. Tutto attorno a me s’incasinò. Mi sposai, mio padre morì da lì a poco e la notte della sua morte scrissi per ore, provandoci con la narrativa (forse) horror. Non mi persi mai un film di Dario Argento. Alla fine invecchiavo e lui pure. Si vedeva, lui non ne faceva mistero, ma di tanto in tanto in prodotti che si possono anche stare a discutere balenavano squarci di grande cinema come la magnifica e lunga sequenza dell’omicidio in treno in Nonhosonno.

Insomma, questo libro mi ha colpito duro, sotto la cintura, facendomi riconsiderare banali faccende che conoscevo bene, tipo gli autori della tua vita – sono nato nel ’50, fate l’elenco voi – che invecchiano con te che stai invecchiando. E magari un effetto-specchio che può non piacerti, ma qui mi blocco per non scantonare come spesso mi capita.

Torno invece al libro per il quale, al di là della reazione deliziosamente malinconica che ho tentato di tratteggiare, presenta una copiosissima prima parte strutturata a reference, rigorosa e puntigliosa, curata da Pallotta in ordine alfabetico: “enciclopedia argentiana”, dove si scoprono cose, personaggi, attori, etc…, che dal ’65 a oggi hanno fatto parte della galassia del nostro. Un lavoro mostruoso, certosino, che io sappia senza precedenti, grazie al quale veniamo a conoscenza, tra le mille altre cose, che l’architetto Giorgio Galletti è stato l’autore dei disegni infantili in Profondo rosso e che Mater Lacrimarum è nata nel 1305. Giusto per capirci.

Poi è la volta della filmografia argentiana, sviscerata con equilibrio e acume (e non necessariamente agiografica oltre la logica…), che prende in esame tutto, dai telefilm pionieristici de La porta sul buio ai Master of horror. Conclude un’immancabile e necessaria intervista a cura di Aloisio. Dedicato ai fan, a quelli che non lo sono e agli inguaribili piagnoni sul tempo impermanente. Vedi il sottoscritto.