Il gioco d’Acheronte [Alessandria in Pista]

Remottidi Mauro Remotti.

In epoca medievale, durante le feste tradizionali e soprattutto nel periodo di Carnevale,[1] alcune compagnie[2] di giovani si divertivano con rappresentazioni giullaresche. Il gioco d’Acheronte[3] rientra nella categoria delle serenate (ciabre)[4] di cui abbiamo testimonianza, almeno dal XIV secolo, un po’ in tutta l’Italia settentrionale.

Secondo gli annalisti Guglielmo Schiavina e Girolamo Ghilini, anche in Alessandria il gioco d’Acheronte, che aveva lo scopo di deridere il secondo matrimonio delle vedove e dei vedovi, era molto diffuso e risalirebbe a un’età successiva alla fondazione della Città.

Copia di I nomi di Alessandria [Alessandria in Pista] CorriereAlLe seconde nozze erano viste con sfavore dalla morale cristiana, per cui si cercava di distogliere soprattutto le vedove[5] dal rimaritarsi. Venne infatti istituita la figura di un prefetto, il quale aveva il compito di riscuotere una tassa (pari all’1% della dote, ma spesso si applicava uno sconto)[6]. Al prefetto veniva consegnato lo stendardo di Acheronte che raffigurava una capra[7] seduta su una sedia in mezzo a molti asini e ad alcune anziane che filavano.

Se la donna si rifiutava di pagare la tassa, il prefetto, esposto lo stendardo, avvisava i giovani della città, che si davano appuntamento sotto casa della vedova, e per tre giorni consecutivi facevano un gran baccano con: “nacchere, sonagli, campanelle, cembali, tamburi, badili, zappe, et altri vasi e instrumenti di bronzo o di rame[8] al fine di tenere lontano lo spirito offeso del coniuge defunto.

Alla vedova non conveniva uscire di casa: veniva presa e messa a forza in groppa a un asino con la faccia rivolta verso la coda e fatta sfilare per le vie cittadine, per poi essere ricondotta a casa tra frizzi e lazzi.

Copia di I nomi di Alessandria [Alessandria in Pista] CorriereAl 1

Questa usanza diventava una sorta di gogna pubblica e spesso un mero pretesto per disordini che talvolta sfociavano in omicidi. Per tale ragione, nel 1584, il vescovo Guarnero Trotti[9] decise di vietare il gioco d’Acheronte, sebbene per molti anni ancora lo stendardo venne esibito durante il Carnevale.

Nel 1832 il poeta dialettale Francesco Testore[10] descriveva la ciabra fatta a una certa Pippa, vedova settantantenne, la quale aveva avuto la sfrontatezza di risposarsi.
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[1]Il Carnevale, dal latino carmen levare, è da sempre sinonimo di allegria con la sospensione momentanea delle regole e della morale comune. Nel Medioevo durava molto di più: in pratica iniziava subito dopo Natale.

[2] L’origine di queste associazioni giovanili è molto antica, probabilmente risalente all’anno Mille. Nel tempo hanno assunto diverse denominazioni, quali: “Abbazie degli stolti” ovvero “Compagnie dei folli o degli asini”. Si davano propri statuti e una propria gerarchia a imitazione di quella monastica. Ogni Badia o Abbadia eleggeva il suo “episcopus” o “abbas” carica generalmente coperta da autorevoli personaggi del Comune e gli adepti erano appunto chiamati monaci oppure stolti o folli.

[3] Secondo la mitologia greca, l’Acheronte, ossia “fiume del dolore”, è un ramo dello Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba attraverso il quale Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti.

[4] Più nota con il nome francese di charivari derivante dal termine romano caribaria (letteralmente mal di testa) il quale, a sua volta, traeva origine dal greco keras (testa) e barys (pesante).

[5] Il popolo riteneva che la vedova, non onorando la memoria del precedente marito, era indegna di conservane e gestirne gli averi. Inoltre, non dimostrava di amare i figli, dato che mirava a mischiarne il sangue con quello di un’altra stirpe.

[6] Gli statuti delle associazioni goliardiche prevedevano alcuni curiosi diritti, tra i quali anche quello di riscuotere una specie di tassa dagli sposi il c.d. “diritto di barriera”. In pratica, veniva impedito il passo al corteo nuziale fino a che lo sposo non sottostava a certe formalità e non veniva pagata una percentuale sulla dote della futura moglie.

[7] Nelle valli alpine di Cuneo vi era l’usanza di “comperare la capra”, laddove in una famiglia i figli più giovani si sposavano prima dei fratelli anziani. Secondo l’enciclopedia Treccani, con il termine capramarito si designa lo schiamazzo accompagnato da atti lubrici in occasione di seconde nozze.

[8] Girolamo Ghilini, Annali di Alessandria, 1666.

[9] Guarnero Trotti, nativo di Fresonara, è stato arcidiacono della cattedrale di Alessandria e consacrato vescovo nell’anno 1571. A lui si devono l’ampliamento del seminario e l’acquisto del palazzo Inviziati come residenza vescovile. Nel 1562 fondò, insieme ad altri due alessandrini Giovanni Francesco Aulari ed Emilio Mantelli, l’Accademia degli Immobili. Morì prematuramente nel 1584 e fu sepolto nella cattedrale di Alessandria.

[10] Francesco Testore (1797-1884), di professione tintore, scrisse complessivamente 121 poesie dialettali divise in cinque gruppi.  Sedici di queste sono preghiere che le ragazze rivolgono a Sant’Antonio per trovare marito.