Morte e miracoli di Gabriele D’Annunzio [Quarta di copertina]

dannunzio di Pietro Mercogliano

 

La piú grande opera d’arte, quantomeno per estensione, di Gabriele d’Annunzio (o “D’Annunzio”, con la maiuscola, come si firmava) è la sua stessa “vita inimitabile”: allacciandosi a una lunga tradizione europea che risale almeno a Francesco Petrarca, D’Annunzio passò l’intera vita a costruirsi una biografia esemplare attraverso azioni e scritti; non tutto ciò che di sé scriveva è da prendersi alla lettera come dato storico, e non tanto perché a D’Annunzio piacesse mentire: ma proprio perché nella trasfigurazione letteraria della propria biografia risiede la sua piú complessa architettura artistica.

Eroe decadente, poeta-soldato, cantore dell’arcaico e dell’avvenire, raffinatissimo uomo di società, scostante eremita: a questa sua ardente personalità dedicò il grande monumento del Vittoriale e quello grandissimo della sua Opera.

Come ogni artista innamorato di sé stesso e dotato di gusto per il Teatro, D’Annunzio volle mettere addirittura in iscena la sua morte: lo fece a piú riprese, e gli esempî piú compiuti sono la culla-letto-bara nella “Stanza del Lebbroso” (o “Zambra del Misello” o “Cella dei Puri Sogni”, che dir si voglia) a “la Priora” nel complesso di Gardone Riviera e il romanzo “Il Trionfo della Morte”.

Ma la prima e piú eclatante delle morti di D’Annunzio fu quella che è alla base del dannunzio-primo-veresuccesso commerciale della sua prima raccolta di poesie, “Primo Vere”. Era il 1879, e Gabriele D’Annunzio aveva sedici anni, quando fece stampare a spese del padre cinquecento copie di una silloge di sue poesie di quegli anni giovanili; ma fu la seconda edizione, avvenuta l’anno successivo a seguito d’importanti revisioni, a coincidere col vero manifestarsi primo del mito di D’Annunzio: e questo anche grazie alla notizia – falsissima – che il giovane Autore fosse appena morto cadendo da cavallo; i bei versi, un poco acerbi e scolastici ma già ardenti di fuoco profetico, furono tanto piú amati in virtú della terribile vicenda della morte prematura e violenta del loro Autore. Non so con quale spirito Gabriele D’Annunzio si sia poi invece presentato, ben in salute, a raccogliere i plausi dei commossi acquirenti.

Però il punto è – io credo – che, al di là della geniale e truffaldina trovata commerciale, “Primo Vere” davvero sia stata per D’Annunzio (e possa essere per un buon lettore) un’opera postuma: prima che una raccolta di poesie, è un romanzo che parla di un giovanotto troppo ardito morto in una prova sportiva di cui ci sopravvivono versi preziosi. Leggere questo romanzo è difficile, perché non si trova nelle pagine (che accolgono invece le poesie dello sventurato ragazzo): questo è vero di tutte le opere dei grandi artisti; l’opera non è mai scritta: ma sta nel bianco attorno alle righe, nel taglio delle pagine, nelle grinze della sovraccoperta.

A loro volta i versi di “Primo Vere”opera prima e postuma, testimonianza di un’epoca di vita che la Morte ha strappato all’Amore – ricompaiono nell’ordito di altre opere dannunziane.

Il capolavoro stesso di D’Annunzio, la raccolta poetica “Alcyone”, ha molto delle poesie di “Primo Vere”: il piglio profetico, la passione classicistica, la dichiarata ispirazione ai modelli italiani della tradizione pur nella sorprendente varietà dei metri; ma ha molto anche del romanzo di “Primo Vere”: il matrimonio fra giovinezza e morte, la velocità folle delle cavalcate, la trasfigurazione del Sé.

Quasi tutti i fatti della vita di D’Annunzio hanno valenza letteraria, e quasi tutte le righe delle sue opere hanno valenza biografica.

dannunzio-prioria-stanza-lebbroso-foto-archivio-vittoriale-medium1-1024x682“Alcyone” è un’opera che nessun amante della lettura dovrebbe permettersi di lasciarsi sfuggire; piú ostico – ancorché piú breve – è “Primo Vere”, sia per la minor consapevolezza poetica del giovanissimo Autore sia per l’ispirazione carducciana e scapigliata a volte un poco troppo in evidenza. Ma un appassionato, o anche solo un curioso, di D’Annunzio e di Poesia in genere dovrebbe comunque almeno entrarci in contatto: sia perché, pur non essendo il capolavoro dannunziano, si tratta comunque in assoluto di un capolavoro; e sia perché, conoscendo la singolare vicenda editoriale, si può trarre dalla lettura dei versi un altrettanto singolare piacere.

Anche solo – se si vuole – per sorridere in cuor proprio del vecchio D’Annunzio e della sua notevolissima inventiva commerciale: inventò lui Maciste per l’industria cinematografica, inventò lo pseudonimo di “Liala” per la celeberrima autrice di romanzi d’appendice, inventò i termini “arzente” (oggi un poco in disuso) e “tramezzino” per l’industria enogastronomica, ideò campagne pubblicitarie di successo infallibile, sceneggiò la sua morte per nascere alla fama letteraria con invidiabile stile.