R come Rubino di Cantavenna [Abbecedario del gusto]

alphabet-r-1 di Pietro Mercogliano

 

Rubino di Cantavenna è il nome di una denominazione non molto nota ai consumatori, anche abbastanza informati, non originarî della zona di produzione: io per esempio ne sono venuto a conoscenza non prima di tre anni fa; è però ben presente sia a chi lavori nel settore sia agli abitanti del posto, che lo amano e lo tengono in buon conto sulle tavole delle case e dei ristoranti.

Quest’ultima cosa è un bene, perché è bello (e non troppo consueto) che un prodotto sia apprezzato nel luogo che lo vede nascere; però forse anche un poco di diffusione in piú non guasterebbe, anche perché si tratta di un vino che si beve volentieri e che si presterebbe anche a un consumo un poco piú largo.

Si tratta di una delle tante declinazioni dell’uva Barbera, che deve esser presente in una proporzione che va da un minimo del 75% a un massimo del 90%; il rimanente (fra il 10% e il 25%) dev’esser costituito da Freisa o Grignolino, da soli o congiuntamente.

La produzione avviene nella sola Provincia di Alessandria; in particolare è cantavennaconcentrata nei Comuni di Gabiano – che, con la sua Frazione di Cantavenna, ha dato il nome a tutta la D.O.C. – e di Moncestino e Villamiroglio nonché nella parte del Comune di Camino che corrisponde alla vecchia Castel San Pietro Monferrato.

Come nel caso di altri vini prodotti in tutta la zona fra la cittadella di Gabiano e quella di Camino, nella mescolanza della Barbera con uve come Freisa e Grignolino si è voluta leggere la traccia di un incontro di culture fra quelle barbare (che avrebbe coltivato prevalentemente la prima varietà) e quella celtico-ligure latinizzata (che invece avrebbe posto a dimora piuttosto le seconde). Come dato storico, naturalmente, non è facile da verificare: perché le informazioni dell’epoca sono scarse, perché la capacità di discernere i vitigni e i vini di quei pochi che ne hanno lasciate sono inferiori e comunque diverse rispetto a quelle che sarebbero necessarie, perché l’argomento socio-economico e antropologico è troppo complesso per accettare con leggerezza un indizio pur soddisfacentemente convincente e documentato; ma è una storia suggestiva – e, chissà, magari pure vera –, che può far piacere raccontare e raccontarsi davanti a un bicchiere di questo vino.

caliceTale bicchiere avrà la forma di ballon stelo lungo di media ampiezza, e il vino vi si servirà ad una temperatura di poco superiore ai 14°C. Il colore (manco a dirlo) è una preziosa sfumatura di rubino, che può – a seconda dei casi – sfumare sui bordi verso il porpora o nel cuore verso il granata; ha spesso un profumo schiettamente vinoso, dal quale però emergono ricordi di frutti di bosco e di visciola e note floreali di glicine e geranio, e può presentare una speziatura affine al chiodo di garofano; in bocca ha una notevole acidità e spesso un tannino evidente anche se non mordace, e chiude sovente su toni di mandorla.

Si tratta di uno di quei vini simpatici, che tanto guadagnano dall’abbinamento col cibo. È ottimo con salumi cotti e carni bianche, ed io lo consiglierei di cuore per accompagnare il tipico fritto misto à la piemontese.

Ma sarebbe crudele privarsi del tentativo di un abbinamento col raschera-dopformaggio. Propongo il Raschera D.O.P., (giustamente) rinomato prodotto piemontese; il nome deriva da un pascolo che si trova attorno al lago omonimo, alle pendici del Mongioie (vetta delle Alpi Marittime); la produzione è consentita in tutta la Provincia di Cuneo, ma la tipologia d’alpeggio (che è probabilmente la piú interessante) è limitata al territorio di otto comuni: Magliano Alpi – nel cui territorio si trova anche la cima del monte Mongioie –, Frabosa Soprana e Frabosa Sottana, Garessio, Ormea, Pamparato, Roburent, Roccaforte Mondoví; si produce da latte vaccino con eventuali aggiunte di capra o pecora e si stagiona per un minimo di un mese in forme quadrate o tonde: il risultato finale si presenta di una nobile sfumatura di bianco con piccole occhiature irregolari sparse nella pasta cruda pressata semidura, in bocca è di consistenza elastica e di sapore delicato e profumato che tende a piccantezza e maggior sapidità con piú lunga stagionatura. Ma per l’abbinamento col nostro vino sarà sufficiente la stagionatura di un mese di un Raschera d’alpeggio, assoluto od accompagnato da un pezzetto di pane bianco sciapo à la toscana.