Zone d’ombra [Lettera 32]

Giuliano Beppedi Beppe Giuliano

 

Si è di nuovo inginocchiato. Colin Kaepernick, il quarterback di San Francisco, lo ha di nuovo fatto prima dell’ultima amichevole precampionato, mentre eseguivano l’inno.
Kaepernick sta protestando contro le notevoli violenze e l’oppressione che le persone di colore subiscono negli Stati Uniti.
L’inno, là, soprattutto dopo l’11 settembre è un momento molto solenne, quasi sempre lo eseguono militari, è una marziale liturgia patriottica.

Lui nel frattempo si è presentato alla conferenza stampa in cui ha spiegato la sua protesta indossando una maglietta con su l’immagine dell’incontro tra Fidel e Malcolm X. Insomma, non un gesto di distensione.
Intanto nell’ultima amichevole un suo compagno di squadra si è unito a lui, e altri atleti sembrano seguire il suo esempio. Molto interessante vedere cosa succederà, al coraggioso Colin e soprattutto come questa protesta evolverà, e come verrà gestita.

Il primo Super Bowl che ho visto è il terzo mai trasmesso in Italia, dalle “tv di Foto 2Berlusconi”. Era il gennaio del 1983. Giocavano i Dolphins di Miami contro i Redskins di Washington che vinsero soprattutto grazie al loro eccentrico “corridore” John Riggins. L’anno successivo i “Pellerossa” tornarono alla finale, e persero contro i Raiders di Oakland. Uno dei giocatori più eccentrici e feroci, e anche per questo molto celebrato pure da noi (i Raiders erano la squadra più popolare negli anni ottanta della scoperta del football americano qui) si chiamava Lyle Alzado.

Lyle Alzado morì molto giovane, aveva poco più di quarant’anni. Un destino comune a molti giocatori di quell’era. Lui per un cancro al cervello, che poco prima di morire attribuì all’abuso di steroidi (allora consentiti). Non gli fecero un’autopsia quindi non sappiamo se solo gli steroidi furono tra le cause della morte, e non anche le lesioni subite giocando.

Uno dei libri più belli sul football americano l’ha scritto Kevin Cook e si chiama, in modo molto significativo ‘The Last Headbangers’. I “pazzi da legare” erano i giocatori degli anni Settanta, epoca selvaggia in quello sport, in cui la grande rivalità era proprio tra i Raiders e gli Steelers di Pittsburgh:
“Chiese a Madden di concedergli ancora un gioco, e Madden lo schierò nel precampionato. ‘Era il tipo che avviò il gioco della prima partita della squadra nel 1960, quando ero il quarterback,” ricorda Flores, “e in ogni singola azione dei Raiders dei quindici anni successivi. Nel suo ultimissimo gioco, Pops mise in gioco la palla e semplicemente etichettò l’avversario di fronte – gli stampigliò proprio addosso l’etichetta del suo casco. Poi zoppicò fuori dal campo sorridendo. Un ultimo colpo.”
(John Madden era l’allenatore dei Raiders all’epoca, oggi il suo nome lo conoscono bene tutti i giocatori di videogame. Tom Flores fu giocatore e poi allenatore dei Raiders. Pops è Jim Otto, storico centro della squadra: ha subito 74 interventi chirurgici, otto protesi e un’amputazione per tutti i colpi presi durante la carriera). Giocare infortunati, giocare con ferocia, colpire il più duro possibile l’avversario (e vivere “sulla corsia di sorpasso”) erano all’epoca le cose più apprezzate nell’ambiente.

Lo stesso ruolo di Jim Otto, per gli Steelers, lo ricopriva Mike Webster.
Ecco, se vi capita, guardate ‘Zona d’ombra’ (il titolo originale è un molto più diretto ‘Concussion’).
Racconta la storia del medico nigeriano Bennet Omalu, interpretato (splendidamente) da Will Smith. Il patologo che fece l’autopsia di Webster, morto cinquantenne dopo avere sofferto di amnesia, depressione e una forma di demenza, e trascorso gli ultimi anni della vita, lui che a Pittsburgh era una specie di leggenda, da vagabondo, dormendo in auto o in stazioni del treno. Il dottor Omalu non si accontentò di un semplice referto sulle cause della morte di un uomo ancora giovane ma devastato in modo sconvolgente. Approfondendo (non senza pagare molti prezzi) le analisi, anche su altri ex giocatori morti giovani, molti per suicidio, ha scoperto una malattia degenerativa che colpisce il cervello quando subisce molti traumi e commozioni cerebrali (le “concussion” del titolo).

La lega professionistica, la NFL, dopo molti tentativi di negare l’evidenza (a proposito di gestire situazioni difficili) ha ora dovuto ammettere l’esistenza di questa patologia che è stata accertata (lo si può fare solo “post mortem”) in almeno novanta giocatori.

Foto 1La metà degli anni Ottanta fu un periodo felice per lo sport a Chicago, dove di solito i tifosi locali hanno invece soprattutto buoni motivi per lamentarsi (molto simili a noi dei “grigi”, mi pare). Di colpo arrivò in città un certo Michael Jordan a illuminare la squadra di basket, e i Bears dominarono e vinsero il Super Bowl a gennaio del 1986. Tra loro divenne un beniamino “il Frigorifero”, come era soprannominato il gigantesco esordiente William Perry, un bonaccione di 150 chili che giocava in difesa ma venne utilizzato per segnare alcune mete (per semplificare: una cosa inusuale come un portiere che calcia le punizioni. Un portiere decisamente sovradimensionato, poi). Un articolo recente di Sports Illustrated racconta tutti i problemi (economici, di salute, con l’alcol, comportamentali) che sta affrontando ora, che ha cinquant’anni e di chili ne pesa quasi 200. È stato affidato alla tutela di suo fratello minore. Sono sicuro che abbia la CTE, la malattia degenerativa del cervello, ha detto il fratello al giornalista.

Se a Chicago vincono raramente, per i loro grandi rivali di Detroit perdere è la regola assoluta. Fondati nel 1930, tra le prime squadre della lega, campioni per l’ultima volta nel 1957, non vincono una partita del playoff dal gennaio 1992. Quella fu la grande partita di Erik Kramer, un quarterback bravo, con grandissimo carattere, non certo un campione (per dire: iniziò la carriera da pro quando a causa di uno sciopero dei giocatori le squadre dovettero ricorrere a rimpiazzi). Ad agosto dello scorso anno si è sparato alla testa, ferendosi ma senza riuscire a uccidersi, dopo anni di depressione. Una delle persone che gli sta più vicino nel recupero è il suo predecessore nel ruolo di quarterback dei Lions, Eric Hipple. Lui aveva provato a buttarsi giù da un’auto in corsa, dopo avere scarabocchiato poche parole di addio (“mi dispiace, non ce la faccio più”) su un biglietto passato a sua moglie che stava guidando. Sopravvissuto, Hipple ha seguito corsi di neurologia, scienze comportamentali e psicologia. Oggi assiste oltre cento ex-giocatori che hanno problemi legati alla depressione, in molti acuita dalla grande sopportazione dei dolori fisici cui sono costretti.

Il campionato di football americano inizia come sempre con settembre. E come sempre lo seguirò, sia chiaro, perché è un gioco che ha le sue “zone d’ombra”, ed è giusto raccontarle, certo, ma è anche un gioco molto spettacolare ed estremamente divertente.