I corridori degli altipiani [Lettera 32]

Giuliano Beppedi Beppe Giuliano

 

Uno dei momenti più toccanti della cerimonia inaugurale dei Giochi di Rio è stata la premiazione di Kipchoge Keino. L’ex atleta, che a 76 anni ha corso nello stadio a un passo che chi scrive (ma immagino anche parecchi tra i lettori) avrebbe faticato a reggere, oggi è soprattutto un benefattore, con le sue scuole in cui offre un futuro a tanti orfani del Kenya, ma un tempo è stato pioniere.
“I 5000 sono mezzofondo pure.” Si legge in un articolo di cinquanta anni giusti fa. “Il record di Keino è il primo record classico ed importante ottenuto dai mezzofondisti di razza nera africana che affolleranno nei prossimi anni le classifiche alte dell’atletica.”
Facile profezia, del tutto avveratasi, possiamo dire ora.

E Kip Keino vincerà il primo oro olimpico su pista, per i corridori degli    Keinoaltipiani, a Messico 1968, anche se nei 1500 metri e non nei 5000 (di cui parleremo ancora), specialità che non lo vide mai sul podio più alto (l’altro oro, quattro anni dopo, sarà sui 3000 siepi), con un vantaggio enorme di quasi tre secondi sul secondo arrivato, l’allora recordman, il ragazzo prodigio (poi per molti anni “congressman” repubblicano) Jim Ryun.

Ho parlato di oro su pista perché prima di Keino c’era stato uno dei più grandi atleti di tutti i tempi, e anche una delle immagini simbolo dei giochi più belli di sempre, quelli di Roma 1960, e di una maratona unica partita al tramonto, corsa lungo l’Appia Antica illuminata solo dalle torce e che arrivò non nello stadio Olimpico, ma sotto l’Arco di Costantino. Lì volava, scalzo, mentre i suoi piedi apparentemente Bikilaneanche sfioravano l’asfalto, un corridore allora sconosciuto, l’etiope Abebe Bikila, soldato della guardia dell’imperatore Haile Selassie.

Bikila che rivincerà a Tokyo, quattro anni dopo, mentre si dovrà arrendere prima ai problemi fisici in Messico, dove gli succedette un connazionale anche lui grandissimo corridore, Mamo Wolde, poi definitivamente per un brutto incidente d’auto (su cui molto s’è romanzato) che lo lasciò disabile, prima di morire giovanissimo nel 1973.

I 5000 metri di Messico ’68 furono la fine di un incubo durato quattro anni per un altro africano, anche se del nord. Dalla notte del 14 ottobre 1964 infatti, ogni notte, Mohammed Gammoudi si rivedeva lì, ai piedi del podio e pronto a salirci per chinare il capo e lasciare che gli mettessero al collo la meritatissima medaglia d’oro per la vittoria nei 10mila. Poi, notte dopo notte, mentre lui si distraeva, sul podio saliva un altro, un americano. Erno rimasti in tre, all’ultimo dei venticinque giri della corsa più lunga su pista. L’australiano Clarke, uno che batteva tutti i record ma che, non avendo sprint, sapeva di avere poche possibilità di vincere, cercò di staccare il tunisino e l’americano Mills, uno che aveva un record personale di 50 (cinquanta!) secondi più alto rispetto al passo di quella gara. Ma il tunisino rintuzzò l’attacco, e scartando i numerosi doppiati si fece largo, vedeva il filo di lana, probabilmente sognava la premiazione, tutti i festeggiamenti e gli onori. “Look at Mills. Look at Mills!” Il grido del commentatore “di colore” (come si dice per la seconda voce delle telecronache) della Nbc spezzò l’austera liturgia televisiva dell’epoca (fu infatti licenziato, pare) e accompagnò il clamoroso sorpasso, e i sogni di Gammoudi almeno fino alla rivincita di quattro anni dopo, fino a quel 17 ottobre del 1968 in cui non si fece sorprendere da nessuno, neanche dal grande Kip Keino, secondo e battuto.

Nel 1966, tra i dieci più veloci al mondo nelle corse di mezzofondo e fondo, tra 1500, Tokio 100005000, 10.000 metri e 3000 siepi, contiamo due soli atleti africani, quelli che abbiamo già più volte citati. Oggi l’unico (sic!) non africano è Mo Farah, il britannico però nato in Somalia capace della doppietta 5000-10.000 quattro anni fa, primo europeo dopo Lasse Viren, che la ripeté a Monaco 1972 e a Montreal 1976 (ma sul barbuto finlandese aleggia il sospetto di essere stato il primo atleta “aiutato” dall’emotrasfusione).

Dibaba LondraOggi i nomi che leggiamo sono quelli, sovente leggendari, dei corridori degli altipiani, tanto che ci si chiede per quale alchimia queste donne e questi uomini vincano tutte le corse sulla lunga distanza, e se non è l’altura, se non è la genetica, se non è l’alimentazione da bambini, allora sarà perché quegli altipiani sono come la Nuova Zelanda per il rugby, un posto magico.
Dove crescono correndo i “nipotini” di Kip Keino, che vengono dal Kenya, o gli etiopi, molti dei quali vengono da Bekoji, un villaggio con meno di 20mila abitanti, tutti velocissimi (quasi) come Kenenisa Bekele, l’erede dell’altrettanto leggendario Haile Gebrselassie, o le tre sorelle Dibaba, otto medaglie in tutto finora, e il conto salirà vedrete.