Francesco Parise: 35 anni di teatro, con immutata passione [Tempi Supplementari]

Brioschi Massimodi Massimo Brioschi

 
Sono molto curioso di incontrare Francesco Parise. Ha percorso gli ultimi trentacinque anni del teatro alessandrino, dal 1982, anno in cui ha frequentato il corso di teatro dei Pochi condotto da Dollfus, fino ai giorni nostri in cui, oltre a organizzare corsi, recita come attore in alcuni spettacoli professionali.

Ci troviamo all’Ambra, dove Parise conduce una serie di incontri di avvicinamento al teatro, e ci sediamo nel foyer a parlare, mentre, con un po’ di apprensione, Francesco ascolta la musica proveniente dalla sala in cui la serata teatrale dovrebbe svolgersi e che è invece ancora occupata.

Il ricordo del corso dei Pochi di Dollfus è quasi sognante: era stato iscritto dalla sua fidanzata, poi diventata sua moglie, alla fine del servizio militare. È stata quindi quasi una casualità il suo avvicinamento al teatro, ma quel corso gli ha cambiato la vita. Gli incontri si svolgevano a palazzo Cuttica, in una vecchia sala che ai partecipanti pareva bellissima. Perché bellissimo era l’ambiente, le persone che la frequentavano e la passione che si sentiva. Dollfus mi viene descritto come una persona che con poche frasi era in grado di dare gli insegnamenti necessari per poter stare su un palco. Era un uomo anche burbero, che richiedeva serietà e passione ma che in cambio dava la sua, di serietà e passione.

Oltre a Dollfus c’erano altri insegnati, tra cui ricorda Roberto Pierallini e LucianoFrancesco Parise 1 Bevilacqua.  Col tempo la sede si spostò al Teatro Comunale, negli anni Novanta il corso divenne A.T.A. (Azienda Teatrale Alessandrina), quindi interno all’organigramma del teatro, e Francesco era uno degli insegnanti. I corsi dell’ATA erano molto frequentati. C’era, nei giovani, una grande voglia di avvicinarsi al teatro, forse perché all’epoca le proposte alternative erano minori e anche a seguito di telefilm come Saranno Famosi, mi dice, e a un certo punto avevano dovuto imporre delle selezioni d’entrata. Questo andava un po’ contro la linea dei Pochi, che avevano portato avanti l’idea di un teatro aperto a tutti, eppure era diventato inevitabile visto il numero delle richieste, a meno di fare delle classi doppie.

Il corso A.T.A, grazie anche alla disponibilità economica di quegli anni, era un corso in cui chi frequentava aveva la possibilità di confrontarsi con professionisti, che dalle grandi città venivano a proporre stages e incontri, e questo incoraggiava molti giovani di Alessandria a proporsi nelle scuole professionali e a tentare una carriera teatrale.
Questo aspetto a me interessa e cerco di approfondirlo con lui, che ha una così lunga esperienza: frequentare un corso di teatro è spesso entusiasmante. Ci si immerge in un mondo in cui la propria emotività ha possibilità di esprimersi, i sensi si acuiscono, il rapporto con gli altri supera le normali barriere e si ha la sensazione di vivere pienamente. È normale quindi che si voglia prolungare tutto questo il più possibile.

Francesco Parise 2Ma il mondo teatrale professionistico ha altre regole ed è difficile. Difficile entrarci e difficile poterlo far diventare il proprio lavoro e anche quando si riesce, spesso ci si deve adattare a condizioni molto precarie.
Volendo fare un paragone, un corso teatrale equivale, per chi si appassiona, a vivere un innamoramento, mentre la carriera teatrale si avvicina all’amore quotidiano, con tutte le difficoltà, le stanchezze, le delusioni e le disillusioni che questo spesso comporta.

Mi parla, Francesco, di alcuni attori professionisti (in particolare Campanati del teatro della Tosse) che negli incontri illudevano troppo gli allievi, facendo apparire facile un mondo che facile non era. Comunque sia, parecchi allievi provarono la strada professionistica, a volte anche lasciando lavori sicuri e abbracciando un futuro molto incerto, e qualche ex allievo dell’A.T.A. è riuscito nel tempo a crearsi una buona professionalità. Cita in particolare Massimo Poggio e Aldo Ottobrino. Il primo attraverso il cinema e la televisione, il secondo anche grazie a un carattere pragmatico e concreto.

Chiedo a Francesco se ha notato delle differenze tra i partecipanti dei corsi dei decenni scorsi e quelli attuali. Mi dice di sì, che adesso è più difficile coinvolgere le persone, il teatro è visto alla pari di un corso di yoga o dell’iscrizione a una palestra o di un qualsiasi altro hobby e soprattutto in genere vede più voglia di esibirsi e meno di prepararsi. Me lo dice con il sorriso un po’ disincantato di chi conosce l’asprezza della realtà ma riconosce la potenza delle passioni e io rifletto su questa nostra società sempre più autoreferenziale, in cui tutti noi vogliamo essere protagonisti, ma senza fare troppi sforzi.

Le vicende del corso teatrale dei Pochi si intersecano, come è inevitabile, con le vicende cittadine, e mostrano negli anni il lento declino del sistema, a cui fa seguito il crollo totale.

A fine anni Novanta, sotto l’amministrazione Calvo, il corso A.T.A. venne chiuso eFrancesco Parise riaperto solo qualche anno dopo, in altra forma, grazie all’assessore alla cultura dell’epoca Gianfranco Cuttica di Revigliasco. Questa volta col Comune si trovò un accordo di collaborazione esterna e per questo venne fondata un’associazione, ‘i Pochi’. Gli aiuti economici, ogni anno sempre minori, si interruppero con la chiusura del Comunale, che sembrò segnare la fine di un’epoca.

Ma la chiusura del Comunale, secondo Francesco, ha portato anche benefici. Prima, mi dice, sembrava che tutto dovesse passare di lì e se qualcosa era al di fuori non aveva legittimità. Adesso le proposte si moltiplicano, di qualità magari diseguale, ma dando vitalità alla città.

Gli chiedo cosa pensa del futuro del teatro Comunale e secondo lui basterebbe una sala centrale piccola anche la metà di quella attuale, cercando di utilizzare lo spazio rimanente in modo alternativo, con attività collaterali. Anche a lui però i tempi sembrano molto lunghi prima che si possa arrivare a un utilizzo continuo della struttura.

Siamo ormai alla fine della nostra conversazione, la musica non accenna a smettere, la sua apprensione continua ad aumentare e io ho solo un’ultima domanda da fare. Che tipo di teatro gli piace. Mi risponde che a lui piacciono gli spettacoli di giovani, anche non perfetti tecnicamente ma in cui si sentono la passione e l’energia per quello che fanno. Non gli piacciono invece spettacoli di attori paludati che portano in giro solo la loro fredda professionalità.

E allora forse capisco cosa lo fa essere lì stasera, ad aspettare che si liberi una stanza che non dovrebbe essere occupata, dopo quasi trentacinque anni dal suo avvicinamento al teatro: la passione per l’energia vitale, per quei troppo rari momenti in cui la vita ci sembra piena e lieve e meritevole di essere vissuta in ogni suo istante e la realtà con il suo carico di incertezze e pesantezze solo un innocuo effetto collaterale.