Quando gli enti locali fanno i capitalisti [La coda dell’occhio]

Zoccola Paolodi Paolo Zoccola

Occupiamoci del settore delle autonomie locali, e in particolare delle società ed enti partecipati che ne fanno parte: il cosiddetto ‘capitalismo di Stato’. Sperando che se ne occupi anche il nuovo governo Renzi perché nel suo insieme questa enorme galassia di Spa, Srl, Consorzi ecc rappresenta una bomba a orologeria che prima poi è destinata a scoppiare.

Intanto qualche numero. Sembra, (dicesi sembra in quanto il calcolo non è poi così semplice) che il loro numero arrivi alla stupefacente soglia di 6.000. Un livello al quale anche gli esperti si fermano perché nessuno è stato finora in grado di censire le società di secondo livello, quello delle società a loro volta partecipate da quelle controllate direttamente dagli enti locali, su molte delle quali pende anche il sospetto di non essere altro che espedienti creati per aggirare qualche ‘fastidioso’ vincolo di legge.

Quindi, a livello ufficiale, impossibilità di addivenire a una radiografia precisa dell’intero sistema. A livello di comuni cittadini la vox populi invece non ha dubbi: si tratta di un gigantesco sistema che soprattutto produce debiti, e questo comune sentire viene confermato anche dalle fonti ufficiali.

“Secondo l’ultimo censimento del Dipartimento della Funzione pubblica – dice Roberto Pennisi su www.formiche.net – i risultati economici sono crollati del 77% nel solo 2011, ultimo anno monitorato quando solo il 56% delle società locali ha chiuso in utile, e meno del 7% degli utili è stato generato da aziende interamente pubbliche. Secondo la Corte dei Conti e il servizio studi della Camera dei Deputati, l’indebitamento netto di questo “capitalismo delle autonomie locali” si porrebbe sui 35-40 miliardi, un fardello non indifferente”.

Sono dati da brivido che dovrebbero far riflettere persino i nemici delleBurocrazia pubblica privatizzazioni tout court, quelli che adottando un’ottica anticapitalistica fanno del ‘bene comune’ una bandiera. Ma il problema – una volta per tutte acclarato che al di sotto di un certo livello di fatturato l’amministratore pubblico (per mille ragioni e non tutte sicuramente ignobili) è meno efficiente di quello privato – non è ideologico in quanto fa parte di un sistema di sussidiarietà assai diffuso in tutto il Paese, usato sia dallo Stato centrale che dalle sue emanazioni locali. Gran parte di quelle seimila società sopra citate sono state infatti create per rispondere a problemi di occupazione, al fine cioè di evitare licenziamenti di massa e disservizi per i cittadini.

L’ente interviene per mettere un argine al disagio sociale ma in realtà finisce per aggravarlo caricandosi di debiti dovuti in parte alla sua cronica incapacità di gestione, in parte all’altrettanto cronica tentazione del voto di scambio che porta inevitabilmente al continuo implemento del personale. Senza contare – e qui si annida una seconda e gravissima ipocrisia – che per ognuna di quelle seimila società l’ente si accolla gli emolumenti di presidente, vicepresidente, amministratore delegato, consiglio di amministrazione, tutti di nomina politica, più, naturalmente i revisori dei conti. A spanne 80/90.000 persone. Un’orgia collettiva a spese del settore pubblico con tutto il corrredo di favoritismi, scambio di voti, passaggi da partito a partito, creazione o distruzione di maggioranze, nepotismi, tangenti sessuali…

Vien voglia di chiudere il computer e mandarli tutti al diavolo.