Ceramiche Del Conca: un esempio per capire la crisi italiana [La coda dell’occhio]

Zoccola Paolodi Paolo Zoccola

Questa volta non si tratta di delocalizzazione, non si tratta della disperata ricerca di nazioni che fanno ponti d’oro alle imprese italiane, che offrono profili salariali enormemente convenienti, che fanno di tutto pur di incrementare il loro tessuto industriale. No, questa volta la storia è diversa, tanto da rappresentare un esempio paradigmatico di paesi nei quali la burocrazia si muove nell’interesse del territorio e di altri in cui si muove solo nell’interesse di sé stessa.

La vicenda è stata lanciata da www.ilfattoquotidiano.it e poi ripresa dal benemerito sito www.savethechoice.it

Siamo a San Clemente, paesino in provincia di Rimini dove ha sede la ‘Del Conca’ (121 milioni di fatturato annuo), che lavora nel ramo delle ceramiche, quello considerato giustamente come un’eccellenza del Made in Italy, quello che dovremmo curare come la luce dei nostri occhi. Ebbene da tempo la ditta ha necessità di ampliare i propri stabilimenti di produzione, tanto è vero che dieci anni fa (sì proprio nel 2004) inizia a chiedere le necessarie autorizzazioni. Tutti contenti, tutti felici, nuovi posti di lavoro, interesse collettivo ecc. ecc. Ma lentamente gli anni passano, ogni tanto interrotti da qualche riunione ai vertici amministrativi, dalla richiesta di nuova documentazione, dalla necessità di rifare le pratiche perché nel frattempo qualcosa nella legislazione è cambiato e la Del Conca è costretta a segnare il passo, a rivedere i suoi programmi o a cancellarli definitivamente.

Intanto il management si guarda attorno e si convince che il mercato Usa staDel Conca ceramiche offrendo ottime possibilità per i loro prodotti. Così si informa, si prepara, prende i primi contatti. Individua un sito nello Stato del Tennessee e propone un investimento di 50 milioni di dollari per la costruzione di uno stabilimento di 30.000 metri quadrati che darà lavoro a un centinaio di dipendenti. Detto fatto. L’intera operazione ha richiesto (dalla presentazione delle prime pratiche avvenuto nel dicembre 2012 per un terreno nei pressi della città di Loudon, alla realizzazione dell’intero immobile) meno di un anno, tanto è vero che col 2014 è iniziata la produzione. A dirla tutta bisogna aggiungere anche che nello stesso lasso di tempo l’amministrazione del Tennessee ha realizzato una strada di collegamento dalla fabbrica a un vicino snodo logistico.

“La variabile tempo in Italia è fuori controllo”, dice l’Ad del gruppo, Enzo Donald Mularoni. “Con questa esperienza oltreoceano abbiamo potuto mettere a confronto due sistemi: quello italiano che tutti conosciamo, dove la burocrazia è vischiosa e lenta, e quello statunitense, dove invece la parte pubblica cerca di rimuovere gli ostacoli, offrendo non soldi ma servizi. A scanso di equivoci vorrei però precisare che il cuore dell’azienda rimarrà in Italia, dove si cercherà, anche in futuro, di non ridimensionare la produzione e dove il piano di ampliamento non sarà abbandonato”.

Casi simili ristagnano nella memoria di ciascuno di noi, ma quello che abbiamo esposto ha una sua fortissima evidenza icastica. Ma come possiamo sperare in una ripresa, come possiamo pensare di competere a livello internazionale se non riusciamo a demolire il mostro di una burocrazia di tipo zarista che non si preoccupa del fare, ma soltanto di mettere a punto rigidissime norme defatiganti allo scopo di prevenire ogni possibile potenzialità deliquenziale del ‘suddito’?

Auguri a Renzi e alla sua ‘madre di tutte le battaglie’.