Terre d’autunno

Melissa_crotone_1di Nicola Lombardi.

Melissa, Catanzaro (oggi Crotone)
Venerdì 28 ottobre 1949

Il sole sta scendendo oltre la linea frastagliata con cui la Sila, lontana, sgretola l’orizzonte. Una brezza sgarbata corre con dita fresche fra i capelli di Giovanni, seduto sopra un muricciolo a fissare i colori strani che diluiscono il cielo, tra nubi viola e sbavature rosse, accompagnandolo verso il blu scuro che verrà. Non c’è un pensiero particolare, nella testa del ragazzo. O forse ce ne sono troppi, annodati gli uni agli altri, inestricabili, a comporre un groviglio i cui mille capi sono impossibili da afferrare. Per i suoi quindici anni, almeno.

La luna è al suo primo quarto, pallida e sottile come un’unghia. Le sfrecciano davanti piccole ali nere, sparuti stormi fischianti; e la loro voce si mescola a quella del vento per intrufolarsi dentro la testa di Giovanni, intento a stringere nodi lungo una cordicella tenuta distrattamente fra le dita.
“Ué, Giovà, tu che fai: non vieni?”
Marino, di un anno più vecchio, si avvicina stropicciando la tesa di un cappello liso lasciatogli in eredità dal nonno. Gli piace, quel cappello. Lo fa sentire adulto.
“Vengo, vengo… Hanno già cominciato?”
Parlando, Giovanni non distoglie lo sguardo dall’orizzonte, e non smette di stringere nodi.
Marino gli si siede accanto, sul muretto, ma non prima di aver tolto di mezzo una scaglia di pietra che gli avrebbe potuto strappare il fondo dei calzoni. Non che si sarebbe notato.
“Stanno andando.”
Un colpo di vento più energico strappa un sospirone ai cortei di erba secca che costeggiano il sentiero.
“Che stai facendo?” domanda Marino, guardando la funicella che penzola fra le dita di Giovanni.
“Niente. Stavo pensando.”
“Non ti sforzare troppo, eh?”
Giovanni sbotta in una risatina amara. Lestamente intreccia un nuovo nodo, lo stringe, e si volta verso l’amico.
“Tu che dici, Marì: stavolta ce la lasciano, la terra?”
Marino punta gli occhi all’orizzonte. Sa che tra loro e quella remota linea bitorzoluta si stendono ettari di spazio incolto, un mare ormai scuro che potrebbe sfamare tutti quanti, se soltanto…
Giovanni non attende una risposta, e colpisce leggermente l’amico con un gomito alle costole. “Secondo me sì. Secondo me questa volta il barone ci lascia fare.”
Marino sorride.
“Boh, dipende…”
“Da cosa?”
“Da noi, credo…”
Ancora il soffio del vento, ancora lo stridio di uccelli invisibili, ancora i bisbigli dei fili d’erba. E ancora silenzio.
Marino salta giù dal muretto e si calca sulla testa il cappello del nonno.
“Dai, non facciamoci aspettare. Ho detto a Francesco che poteva contare anche su noi due. Ho sbagliato?”
Giovanni infila la funicella piena di nodi sotto la corda che usa a mo’ di cintura e intreccia le dita per cavare una serie di suoni schioccanti dalle falangi, come ha visto fare al pianista prima di uno spettacolo in onore di San Nicola.
“E poi,” continua Marino, come se sentisse di dover aggiungere nuovi argomenti per stimolare l’amico, “credo che verrà anche Assunta. Me l’ha detto suo fratello.”
Spia di sottecchi la reazione di Giovanni, ed è assolutamente certo – anche se obiettivamente non potrebbe vederlo – che le gote gli si son fatte rosse come mele.
“Eccomi, eccomi!” Anche Giovanni salta giù e si strofina le mani contro il fondo dei pantaloni. Nella sua testa, ora, il variopinto caos di pensieri e suggestioni si sta espandendo, sotto la propulsione di deflagranti energie mentali assolutamente incontrollabili. C’è l’idea della terra, quella terra che non appartiene a nessuno di loro, quella ricchezza che pare morta, che li circonda come un oceano salato e non disseta i moribondi; c’è il ricordo delle bombe e degli spari, memorie ancora fresche, e spaventose, di una guerra che ormai è un falò spento, una guerra che li ha lasciati tutti quanti a grattarsi smarriti le ferite, persi fra tizzoni, ruderi e sangue coagulato; ci sono i discorsi accesi di Francesco, che dice sempre e soltanto la verità, anche se le sue parole bruciano come aceto sopra un taglio aperto; c’è l’immagine di Assunta – i lunghi capelli neri, le cosce pallide che sgusciano fra gli strappi della gonna quando corre – che lo stuzzica nei sogni a occhi aperti, che gli infiamma il cuore e lo fa arrossire nel cuore della notte, mentre sopra ogni cosa, a miliardi e miliardi di chilometri, Dio li osserva, tutti quanti, e non può raccontar loro delle lacrime nascoste nel giorno che verrà.
A piedi scalzi, i due amici si avviano in direzione dell’edificio dove ha sede la Federterra. “Ci metteremo d’accordo per domani,” aveva detto Francesco Nigro quel pomeriggio, rivolgendosi a tutti i melissesi. “Questa volta abbiamo da far bene, intesi?”
Marino, camminando, scalcia alcuni ciottoli, mandandoli a smarrirsi nell’oscurità che ristagna dietro l’erba, ai margini della stradicciola.
“Giovà, ti posso fare una domanda?”
“Embè?”
“Tu ci vai, domani?”
Giovanni cerca di guardare l’amico negli occhi, ma non riesce che a cogliere due umidi barlumi bianchi.
“Ci vado sì! Perché, tu no?”
Marino annuisce gravemente per alcuni secondi, cercando di non posare il piede su qualche coccio di vetro.
“Certo che ci vado, mica sono un cacasotto, che credi?”
“E allora perché lo domandi a me? Io sono un cacasotto, secondo te?”
“Ma va, dai! Te lo chiedevo così… Dicono che di sicuro arriverà anche la polizia… per mandarci via, così dicono…”
Giovanni si tura una narice con un dito, e libera l’altra con un soffio sonoro a lato del sentiero. Marino si lascia sfuggire una risatina.
Anche Giovanni sorride. Fra poco incontreranno Francesco alla Federterre, insieme a tutti gli abitanti di Melissa o quasi. Lì si deciderà il da farsi. E se la polizia verrà per mandarli via…
“Noi non ci muoviamo!” dice infine, per chiudere il suo ragionamento muto.
“Anche se vengono con i carri armati?” Marino ha ancora un sorriso sbilenco incollato alla bocca, che però alla luce morente l’amico non può vedere.
“Ma quali carri armati! Ma che stai a dire, Marì?”
In maniera molto vaga, Giovanni si sente come uno dei sassi che Marino sta scalciando al suo passaggio. Non esprime a voce alta quel pensiero, perché lui stesso non è in grado di dargli una forma; però è così, che si sente. Un sasso che rotola, nel buio.

Sabato 29 ottobre 1949

Il sole sta nascosto dietro nuvole che assomigliano a lenzuola lacere appese a un cielo di gesso.
Circa undici chilometri separano Melissa dalla Contrada Fragalà, dove il lungo corteo è diretto. Ci sono quasi tutti, a eccezione dei bambini più piccoli, degli anziani e di pochi altri, rimasti al paese. Le ruote dei carretti e gli zoccoli dei muli che li tirano smuovono nuvolette di terra secca, sbriciolata; suole di cartone e pelle callosa di piedi nudi offrono il loro contributo, mentre il passaggio di quella silenziosa processione è segnato da sbuffi grigiastri che non tardano a riposarsi al suolo.
A osservarli in distanza, ricordano una carovana diretta alle più lontane propaggini di un deserto che non è fatto di sabbia, ma di vasti spazi incolti che potrebbero essere chiamati campi, se lo fossero davvero. Un deserto che potrebbe sfamare non solo i melissesi, ma pure gli abitanti dei tanti piccoli centri che orbitano attorno a quei latifondi infiniti, aridi e trascurati. Ma oggi è “giorno buono”, così pensano in molti. Non tutti, ma la maggioranza di coloro che quella mattina si sono uniti per inseguire un sogno hanno l’animo leggero. Sono certi che questa volta ce la faranno. Il barone Berlingieri dovrà capire che le sue terre sono fatte per essere curate, lavorate, amate. Che sono fatte per dare vita, non per restare cosa morta.
I manici di cento badili, e vanghe, e forconi bidenti oscillano sopra spalle robuste; altri attrezzi affamati di lavoro stanno affastellati sopra i carri, assieme alle ceste del pane e ai barilotti d’acqua. Le donne, quasi tutte scalze, se ne stanno sedute sui bordi di legno scheggiato. Qualcuna di loro sorride con ingenuità, guardando l’espressione compita del proprio uomo in marcia. Qualcun’altra si mordicchia le unghie sporche, ripensando ai sogni oscuri e confusi che l’hanno svegliata nel cuore della notte. C’è naturalmente anche chi avrebbe preferito non andare, ma che per nulla al mondo avrebbe voluto vedersi additare negli anni a venire come codardo, o peggio ancora come infame. Perché si deve esser lì tutti, e per tutti.
Giovanni avrebbe potuto sistemarsi su qualche carretto, ma preferisce camminare; e lo fa con sollecitudine, una zappetta posata sopra la spalla destra. Ha dormito poco, quella notte. Più che altro, è rimasto ad ascoltare suo padre russare e sua madre mugolare nel sonno. Il soffitto di mattoni e travi si era facilmente perso in un gorgo fumoso, e lui era rimasto a fissarvi dentro, disteso sul suo giaciglio lurido, per scorgervi qualche esaltante presagio circa l’esito di quell’iniziativa. Tutti i discorsi che erano stati fatti la sera prima, alla Federterre, gli si contorcevano scivolosi nella testa. Non era riuscito a seguirli con attenzione, ma un concetto era emerso e si era imposto sugli altri: avevano bisogno di quella terra per vivere, e l’avrebbero avuta. Tutta l’impresa gli pareva eroica, ad immaginarne gli sviluppi. Era un ragazzo dotato di buona fantasia. Per cui l’aveva usata, disteso nel buio odoroso della catapecchia in cui abitava. Finché erano giunti i primi sogni, e fra loro, come spesso accadeva, era arrivata anche Assunta. E l’alba lo aveva quasi sorpreso col sorriso sulle labbra.

I tasselli si vanno disponendo. I vari pezzi di quel gioco pericoloso si stanno spostando sulla scacchiera, anche se li uni sono ancora ignari, o quasi, dei movimenti degli altri. È al momento una partita al buio, ma lo rimarrà per poco.

Giuseppe Squillace, sindaco socialista di Melissa, è stato convocato quella stessa mattina in caserma dal commissario Rossi. E non è solo. Ci sono anche il segretario della locale sezione del PCI, Enrico Musacchio, e un segretario della Federterre, Santo Lonetti. Quel corteo di melissesi diretti a Fragalà sta innervosendo le forze dell’ordine. Cosa intendono fare? Cosa contano di ottenere? Rossi lo sa bene, così come sa anche che un intervento diplomatico, per quanto blando, potrebbe evitare svolte poco gradite. Per questo ha convocato coloro che potrebbero porre un freno indolore a quella masnada di disperati, prima che sia troppo tardi.
“Se l’occupazione delle terre del barone si protrae, signori miei,” dice il commissario, “siate certi che sarete ritenuti responsabili per quanto potrebbe accadere.”
“Perché, cosa potrebbe accadere?” domanda Musacchio, sostenendo lo sguardo di Rossi. Ma, pur non ottenendo risposta, ritiene di non doversi ripetere. Non ce n’è bisogno.
Il sindaco esprime allora il proprio pensiero.
“Io credo che sarebbe meglio lasciare in pace quei contadini. A ostacolarli, non si otterrebbe che una rivolta delle masse contadine. Aspettiamo sera. Aspettiamo che ritornino. Sono sicuro che poi ne potremo parlare tutti assieme, con tranquillità. Lei che dice, commissario?”
Rossi si accende una sigaretta, e portandosi alla finestra soffia un proiettile fumoso in direzione di Fragalà.

Villa Berlingieri.
Al barone è stato sufficiente sollevare la cornetta, comporre un numero che conosce a memoria, e parlare con la persona giusta. Finché la terra appartiene a lui, e al suo casato, non permetterà a un branco di delinquenti di fare il bello e il cattivo tempo come se ne fossero i padroni. In seguito a quella telefonata, cento poliziotti si spostano da Bari a Melissa.
Altri pezzi che vanno a disporsi sulla scacchiera.

Continuando a camminare, Giovanni si guarda intorno. A poca distanza, intento a studiarsi le punte delle scarpe, col solito cappello calcato fin sugli occhi, c’è Marino. Si sono scambiati pochissime parole, quel mattino. Le loro teste sono ricolme di fantasie troppo accese, fantasie che hanno attecchito e che stanno germogliando: rimane poco spazio, per coltivare altro.
Davanti, attorno e dietro di lui, tutti amici, e parenti, e conoscenti: Lucia, Angelina, Domenico, Luciano, Carmine, Antonio, Giuseppe, Silvio, Vincenzo, Michele… Naturalmente Francesco Nigro – ventinove anni, disoccupato, fondatore della sezione locale del MSI – sta più avanti, assieme ai suoi familiari. Lui sì che sa parlare, che sa convincere. La sera prima, alla Federterre, Giovanni lo ha ammirato, sul serio. Gli piacerebbe diventare uno come lui, uno che sa quello che vuole, e sa come ottenerlo. Lo ammira, ma allo stesso tempo prova anche una punta di invidia. O meglio, di gelosia. Giovanni ha notato come Assunta lo ascoltava rapita. Ha notato come lo guardava. Ma Assunta è troppo giovane, per uno come lui. Sarebbe invece perfetta per Giovanni. Distrattamente sfiora con le dita la funicella piena di nodi che tiene sotto la cintola. Non assomiglia molto a un braccialetto, ma potrebbe esserlo, se chi lo riceve vorrà fingere che lo sia. Lo donerà ad Assunta, a fine giornata. È sicuro che la ragazza apprezzerà.
Giovanni lancia occhiate a destra e a sinistra. Quando sono partiti dal paese, ha scorto l’oggetto dei suoi sogni assieme al padre e al fratello maggiore. Poi, li ha persi di vista. Ma Assunta c’è, è lì con loro. Farà in modo di capitarle accanto, lavorando. Ha visto che indossava una gonnellina al ginocchio… L’aria è decisamente fresca, ma a quel pensiero lo coglie un gran caldo.

Intanto, la scacchiera è quasi pronta.

Il gruppo dei melissesi raggiunge gli immensi appezzamenti incolti di contrada Fragalà. Risate, grida, polvere. Francesco Nigro fornisce indicazioni circa le varie postazioni di lavoro. Uomini e donne, a gruppetti di sei o sette, si sparpagliano seguendo geometrie invisibili ma collaudate. Alcuni si occupano dei carri e dei muli, facendoli deviare lungo traiettorie che li porteranno a disporsi secondo schemi antichissimi. Il vento li accompagna, li sospinge. E mille denti di legno e metallo incominciano ad affondare nella carne scura ma invitante della terra.

La pausa per il pranzo non è trascorsa da molto, quando alcuni lavoratori si schermano gli occhi con le mani. All’inizio non ne sono sicuri, poi capiscono.
“Gente, ecco che vengono!” grida Carmine.
Non è una sorpresa, se lo aspettavano. Anzi, qualcuno forse addirittura se lo augurava. Francesco Nigro sa in cuor suo che tutto ciò che stanno facendo avrebbe poco senso, se non avvenisse quel confronto. Con i proprietari, con il potere, con la giustizia. Ben venga dunque la polizia. La sera prima ha impartito precise indicazioni circa l’atteggiamento da assumere. Tutti sanno cosa fare, non appena i celerini saranno a portata d’orecchio.
I poliziotti hanno lasciato i loro mezzi a Melissa, e adesso sono una brulicante stringa nera che si va via via ingrossando. Tempo una decina di minuti, e saranno lì.
“Uè, Giovà!” È Marino.
Giovanni lascia per un istante la propria zappa infissa in una zolla, e sposta lo sguardo sull’amico. “Che c’è?”
“Hai visto?”
“Ho visto sì, che credi?” E così dicendo strappa l’attrezzo dal morso duro della terra, preparandosi a colpire ancora. Avverte in bocca un sapore amaro.
“Hai paura?” gli domanda Marino.
Giovanni non risponde, e continua a lavorare.
L’amico fa altrettanto, borbottando: “Nemmeno io.”

Adesso i poliziotti sono lì. Caschi, scudi, armi. Il commissario Rossi li precede di pochi passi, un piccolo megafono stretto in una mano. Le ultime mosse di quella partita stanno per prendere il via.
L’aria si è fatta più fresca, o forse è solamente un’impressione.
Francesco Nigro si guarda attorno, cercando gli sguardi di alcune donne. Qualcuna annuisce, e abbandona accanto ai piedi il proprio attrezzo di lavoro. La sera prima, Francesco ha suggerito una linea di condotta, e tutti si sono dimostrati d’accordo, anche se con qualche riserva. “Se così dice di fare lui,” era stato il commento di Maria, una delle più anziane, “vuol dire che così abbiamo da fare, io mi fido.” Così le donne sparse sui campi si danno la voce l’una con l’altra, e quando Maria incomincia ad applaudire tutte quante la imitano. Dapprima con un’incertezza che sfiora il timore, ma via via che il crepitio di mani si gonfia e si fa quasi frastuono il cuore di ognuna si spalanca e lascia che anche la voce si unisca all’ovazione.
“Viva la polizia!” hanno concordato di gridare, e così fanno. “Viva la polizia dell’Italia Repubblicana!” Voci strozzate, voci stridule, voci disperate si intrecciano agli applausi. È il chiasso festoso di un immenso stormo di aironi che spicca il volo.
Gli uomini non gridano. Loro continuano a lavorare, come è stato deciso.
I poliziotti si scambiano occhiate incerte, nervose. Il commissario solleva alla bocca l’altoparlante. E la sua voce si spande sonora, a dispetto del respiro ansimante dovuto alla lunga marcia.
“Vi ordino di sgomberare questi campi!”
“Viva la polizia! Viva…”
“Interrompete qualunque attività e ritornate alle vostre case!”
“… la polizia! Viva la polizia!…”
Tra le fila dei celerini scorre una corrente elettrica. Occhi arrossati, mani che fremono. Manganelli e mitragliette vibrano, alimentati da energie che come sempre tendono a sfuggire al controllo di chi le sta generando.
Sembra quasi che le donne percepiscano queste ondate invisibili, con una sensibilità tutta femminile che incrina a poco a poco il loro iniziale entusiasmo. Però continuano a inneggiare, intonando quello che solo all’apparenza è un sentito tributo agli emissari del potere.
Il commissario si concede una pausa, prima di riprendere a impartire ordini. È lì da appena una manciata di minuti, ma già intuisce l’esito di quell’incursione. Sente caldo, nonostante la brezza pungente che sta sollevando sopra la campagna mulinelli di terra sbriciolata. L’indicazione giunta dal Ministero degli Interni, ratificata dall’onorevole Scelba, è chiara: “Stroncare il movimento dove questo si dimostra più attivo”. Il ‘movimento’ è quello dei contadini, degli affamati, dei rivoltosi. E quello a cui si trovano di fronte è un ‘movimento’, questo è certo. Un movimento indubbiamente ‘attivo’… O forse non abbastanza attivo? Forse, ci vorrebbe una scintilla. Giusto per evitare grane.
Ancora il megafono alle labbra.
“Ripeto: cessate questa occupazione abusiva e tornate alle vostre case!”
A questo punto, ai vari “Viva la polizia!” che ancora risuonano nel vento si uniscono delle variazioni: “Viva il lavoro! Viva la libertà!” Parole pericolose, se pronunciate da certe categorie. O peggio, se gridate. Parole che possono esplodere…
Francesco continua a scandagliare i volti dei poliziotti che li fronteggiano formando un semicerchio, volti incorniciati dagli elmetti e dalle visiere sollevate. Avverte un tremito nelle gambe. La sicurezza che lo ha animato fino a quel momento comincia a scricchiolare? Preferisce non ammetterlo, neppure con se stesso, e spera che i compaesani non se ne avvedano. Si sente addosso i loro sguardi furtivi, anche se tengono le teste chine sopra la terra su cui stanno sfogando la loro rabbia e la loro paura. Aspettano che prenda l’iniziativa. Ma quale?
Polizia! Libertà! Polizia! Lavoro! Lavoro! Lavoro!…
Giovanni smette di fingere di lavorare.
Osserva la figura ritta e sicura di Francesco, piantata a una decina di metri da lui. Gli volge la schiena, ma Giovanni immagina quale deve essere la sua espressione. La immagina, e gli piacerebbe poterne esibire una identica. Il fatto è che gli stanno tremolando le labbra.
Si gira verso Marino, e gli lancia un messaggio col pensiero. Marì, io incomincio!
L’amico lo squadra ansando, aggrottando le sopracciglia.
“Cosa?” gli domanda, come se Giovanni gli avesse veramente detto qualcosa.
Una folata più nervosa afferra il lembo di un telo steso sopra un carretto, e con quello percuote il fianco di un mulo. L’animale lancia un raglio pigro, e il suo verso si fonde con quello sempre più scomposto, sempre meno compatto, che sgorga dalle gole stanche delle donne.
Giovanni sposta lo sguardo oltre un gruppo di lavoranti, e riesce finalmente a scorgere Assunta. Anche lei sta gridando, naturalmente (“Vivapolilavobertà!”), ma con la lucidità indotta dai suoi sensi sovraeccitati si rende conto di un particolare che ha dell’incredibile: mentre la ragazza grida, lo sta fissando. Sta fissando lui, Giovanni! Allora il cuore compie un balzo in avanti, e il cervello trasmette al suo corpo una folgore di impulsi.
Tutti quanti, ora – pure gli uomini – stanno urlando, i forconi e i badili affondati nella terra, i manici stretti dietro nocche bianche. Dal megafono, la voce metallica e roboante ha ripreso a vomitare comandi sempre più concitati. Qualcuno, adesso, ha cominciato a fischiare. A seguire il primo, anche altri muli si uniscono alla cacofonia, infastiditi, spaventati. Mille sguardi si intrecciano attraverso quei campi, un’irrequieta spola di pensieri taciuti fra polizia e contadini, pensieri che si stanno aggrovigliano ad ogni secondo che passa, allontanandosi in punta di piedi dal recinto della ragione per sconfinare nei più liberi territori dell’istinto.
Giovanni si prende qualche istante ancora per contemplare Assunta, lontana ma mai tanto vicina come in quel momento, poi cede finalmente all’impulso. Si china, e raccoglie una corposa zolla bruna.
Marino comprende al volo. “Ma che fai, Giovà? Sei impazzito?”
Nonostante il nevrotico schiamazzare, Francesco Nigro pare udire quell’esclamazione, e a sua volta si gira per vedere cosa sta succedendo alle sue spalle. Vorrebbe poter essere tanto lesto da impedire a Giovanni di portare a compimento quello sconsiderato progetto; ma una parte di lui lo trattiene. Una parte di lui, forse, è affascinata, e curiosa di conoscere come quella mossa potrà sbloccare l’impasse.
Giovanni carica all’indietro il braccio destro, e gridando: “Volete questa terra? E allora pigghiatevela!” lancia la zolla verso la nera barriera umana. Tutti quanti seguono – ammutoliti all’istante – la parabola di quel blocco friabile ma compatto che scende ad infrangersi innocuamente contro il piccolo scudo di un poliziotto. Nessun danno, naturalmente; senonché, la pagina di quella giornata è scritta.
Accade tutto in una manciata di minuti. Undici, qualcuno arriverà a calcolare. Come ci sarà chi indicherà addirittura in trecento i colpi di mitraglietta esplosi in quel lasso di tempo.
Al tenente basta sollevare un braccio e lanciare un grido, roco e trionfale, attraverso il megafono. Il semicerchio nero si scuote, percorso da un’onda. Una breve serie di clangori metallici, e partono i lacrimogeni. Le grida delle donne si trasformano in strilli. Colonnine di fumo grigio prendono a sorgere per ogni dove come se emergessero dalla terra stessa, pennacchi di minuscoli vulcani che in breve si gonfiano in una nebbia densa e soffocante. I contadini cominciano a disperdersi, le mani davanti alla bocca. E si odono i primi spari, secchi, frenetici, incontrollabili. Zolle riarse si spaccano sotto i colpi di centinaia di suole e talloni piagati.
Volano nomi, e richiami, mentre l’altoparlante continua a ringhiare comandi. Le bestie ragliano, in preda al terrore, e tentano di liberarsi dalle corde che le assicurano ai carretti. Non si vede quasi più nulla, il mondo è adesso solo un caos di sagome umane in fuga verso nessuna destinazione. Tutti urlano, e si chiamano con disperazione gli uni gli altri. Forse vorrebbero che Francesco prendesse in mano la situazione, che li guidasse, che ponesse fine all’orribile piega presa dagli eventi. Ma Francesco non può farlo. Ora è riverso nella polvere irrequieta del campo, una pallottola conficcata nella schiena.
Spari, ancora spari, e strilli ovunque. Qualcuno si ritrova a inciampare sul corpo di un asino agonizzante dalle fauci imbrattate di schiuma e sangue. Si tossisce, e si piange, e si implora di smettere. Un urlo, grigio come il fumo che sta mangiando ogni cosa, si leva al cielo: “Angelina!” Ma Angelina Mauro, venticinque anni, sente a malapena l’amica che grida il suo nome. Adesso è a terra, con un rene perforato. Morirà solo fra alcuni penosi giorni, all’ospedale di Crotone.
Giovanni, nel cuore dell’inferno, non riesce a fare a meno di continuare a bisbigliare un nome: “Assunta, Assunta, Assunta…” Vaga barcollando, reggendosi a fatica in piedi fra le spallate che riceve dai compaesani in fuga. Il suo cervello non è più in grado di formulare pensieri coerenti, se non di covare in sé, come una brace, il chiodo rovente della consapevolezza d’esser stato lui a scatenare tutto quanto. Ma è solo una fissazione dettata dal panico. Quello che sta accadendo sarebbe successo comunque, anche se Giovanni non lo verrà mai a sapere. Qualunque pretesto sarebbe stato buono, magari anche il volo di una mosca. E quando cade, atterrato da un fuoco acceso all’improvviso fra le sue scapole, lo fa quasi con trasporto, con abbandono. Col volto affondato in un solco appena smosso, Giovanni Zito spalanca la bocca e maciulla una piccola zolla sotto i denti. È per te che muoio, è l’idea che gli si rigira nella testa prima che i suoi occhi si chiudano per sempre. E nessuno saprà mai se pensa alla ragazza dalle gambe pallide, o a quella terra sulla quale un tramonto precoce sta per rovesciare fiotti di luce color rubino.