La morte di un uomo

Ramblasdi Daniele Cambiaso.

 

 Barcellona, notte tra il 17 e il 18 luglio 1936

 

“Incredibile! Con quello che sta per capitare, si occupano della morte di un uomo!”

La frase mi sorprende alle spalle, mentre sono chino sul cadavere di Pepé.

Mi volto di scatto, ma nell’ombra della notte colgo solo un muro umano. Facce e corpi indistinti. Mi scuote la voce cantilenante di Manolo, accanto a me, la testa lievemente reclinata sulla spalla sinistra, intento a osservare qualcosa che sfugge alla mia attenzione.

“Che dici, Miguelito… delitto passionale?”

Mi rialzo, cercando una sigaretta nelle tasche della giacca di lino, stazzonata oltre ogni limite da un’intera giornata di lavoro. Questa chiamata, nel cuore della notte, ce la saremmo risparmiata volentieri, io e Manolo. È una notte d’estate umida, appiccicosa e il caldo si fa ancora sentire nelle ramblas di Barcellona. Arriva dalle pareti, sembra acquattarsi nei portoni e uscire dalle finestre spalancate per soffocare la città. Da qualche sera, però, è diverso. C’è elettricità nell’aria, ma non è un fatto di clima. Da giorni serpeggia la paura che si stia preparando un golpe contro il governo del Fronte Popolare, e non è difficile notare assembramenti sempre più folti di persone che commentano le notizie dei giornali, strappandoseli di mano e accalorandosi nelle discussioni. Si respira un’atmosfera snervante di attesa. Si aspetta qualcosa che forse non verrà, ma non si osa neppure nominarla. Ma stanotte l’attenzione dei presenti è tutta per lui, Pepé, il proprietario del Creola, uno dei locali più conosciuti del Barrio Chino. Non conosco il suo vero nome, per tutti è stato sempre e soltanto Pepé. Probabilmente, anche per il suo assassino. O assassina, forse. Due coltellate, precise, nette. Una al cuore, l’altra alla gola. Ci muoviamo con cautela, perché il sangue, tutto attorno, è moltissimo e si disperde in una ragnatela di rigagnoli che segue le fenditure del selciato.

Cercando di non imbrattarmi le mani, frugo nel taschino della giacca. Recupero un cartoncino imbevuto di sangue ormai raggrumato. Vinco il ribrezzo e lo esamino. Sembra una réclame, c’è una caravella stilizzata, una parola interrotta, ma con questa luce non si riesce a vedere bene. Chissà come e quando è finito lì, Pepé aveva mille contatti. Tutto, però, può essere utile, all’inizio di un’inchiesta.

“Non lo so, Manuel. Non lo so… Pepé sapeva stare al mondo. Aveva le sue storie, molto discrete. Mi sembra tutto strano, molto strano.”

Mi sposto, cedendo il mio punto di osservazione al medico legale. Mi sorprende il pensiero che il Creola non sarà più lo stesso, e anche il sapore dell’Escudella di Pepé mi mancherà terribilmente. Recupero finalmente la sigaretta, ma adesso non trovo il cerino. La stanchezza mi stringe la nuca in una morsa. Sbuffo, tergendomi il sudore dalla fronte. Manolo si accosta col suo accendino.

“Da dove cominciamo?”, mi chiede scrutandomi col suo volto magro, scavato, nel quale brillano come carboni accesi due occhi scurissimi.

“Testimoni. Ce ne sono?”

“Una coppia si è affacciata sul vicolo giusto in tempo per vedere un uomo fuggire. Era alto, magro, pare che portasse un guanto”.

“Un guanto?”

“Sì, uno solo. Alla mano destra”.

“Non hanno notato altro?”

“No. Una donna, dalla finestra aperta della camera, ha sentito un rumore di lotta, ma è durato un attimo. Quando si è affacciata, ha visto il morto e ha sentito dei passi in lontananza.”

“Tutto qui? C’è mezza Barcellona, stanotte, in queste strade e quando hanno ammazzato Pepé non c’era nessun altro?”

“Lo sai anche tu che è una stradina tranquilla, questa. Non a caso, qui si affaccia il retro del locale. La gente è arrivata quando si è sparsa la voce. Tutti conoscono Pepé, qui”.

“Già… Con chi se la faceva ultimamente?”

“Mah… non se ne sa molto. Pare che fosse molto preso dagli affari.”

Un’ assenza mi colpisce, mentre scruto i volti della muraglia umana che curiosa a pochi metri dalla scena del crimine.

“E Didì? Anche lui non sa niente? Qui non accade nulla di cui lui non sia a conoscenza…”

Manolo si stringe nelle spalle. Didier il Belga, ex- mercenario, contrabbandiere, sfruttatore di prostitute, era il miglior amico di Pepé. E non è qui. Molto strano.

So già come passare la nottata.

 

Prima, però, decido di risentire i testimoni. Mi fido dei miei collaboratori, ma a volte la verità si nasconde in dettagli che sfuggono al primo colpo d’occhio.

La coppia giovane mi conferma il racconto dell’aggressione, ma la vicina anziana mi regala un indizio che potrebbe rivelarsi utile.

“Lei si affaccia spesso sulla strada?”

Quando mi sono sporto dalla finestra di casa sua, ho notato che gode di una vista invidiabile sul cortile del Creola.

Mi guarda diffidente, con la sua fisionomia indurita, mentre si stringe in uno scialle ormai stinto. È un vezzo, vista la calura opprimente. I poliziotti qui non sono i benvenuti, sono quasi certo che qualche suo figlio, oppure il defunto marito che occhieggia da una cornice listata, sono o sono stati ospiti delle patrie galere. Però si sforza, perché la morte di Pepé è un fatto troppo grosso, anche per chi vive al Barrio e odia la Polizia.

“Fa caldo, di questi tempi… Si fatica a dormire…”

“Certo, signora. Ha mai notato qualcuno o qualcosa di strano, prima di stasera?”

“Ho visto spesso il signor Pepé in compagnia di quello straniero che sta sempre con lui…”

“Didier il Belga, direi. Sono amici…”

“Un solenne putero, pichacorta y lloròn!”, sibila con astio, lasciando cadere l’aria da anziana signora. Non deve nutrire grande simpatia per il personaggio, oltre che per i poliziotti. Non è la sola, in zona.

“E poi, ultimamente, venivano degli altri. Con dei furgoni…”

“Saranno stati i fornitori del ristorante, no?”

“Ma non sembravano i soliti. Erano tipi strani e ultimamente capitavano più spesso. A volte anche di sera tardi…”

“Ha mai visto un uomo con una mano guantata?”

Corruga la fronte, mentre riflette.

“Una volta, ho notato uno così. Ma non è sceso dal furgone. Erano altri a caricare le casse in cortile”.

“Caricavano o scaricavano?”

“Caricavano o scaricavano, ma non erano mai gli stessi. Quella volta caricavano. Sono vecchia, ma ci vedo meglio di molti giovani, cosa crede? Non mi sbaglio. Caricavano.”

“E ha mai visto il putero straniero insieme a questi uomini?”

“Mai. Una volta l’ho visto che se ne andava giusto un minuto prima che gli altri arrivassero, Pepé sembrava quasi spingerlo via”.

Il brusio dalla strada si fa più intenso quando il furgone della Morgue carica il cadavere. È l’una passata. L’ora migliore per andare a caccia del Belga.

 

La vecchia ha parlato di casse. Nel magazzino non ne abbiamo trovato traccia. Dei rifornimenti si occupava personalmente il padrone, dicono al locale. Tutto vuoto, salvo le riserve di Tio Pepe e altri liquori. Non si tratta certo di questo. Di questi tempi c’è una sola cosa che circola dentro a delle casse che nessuno deve vedere.

Armi.

Se ho ragione, il Belga deve saperne qualcosa e la sua assenza in qualche modo lo conferma. Devo trovarlo.

Lungo le ramblas pattuglie di poliziotti a cavallo, anche di notte, come non si sono mai viste. Gruppi di asaldos fermano i passanti e chiedono i documenti, fanno scendere le persone dalle rare automobili, aprono il bagagliaio, fanno domande con gentilezza e decisione. Nessuno protesta, c’è la quiete prima della tempesta, scorre sulla pelle insieme al sudore. In un paio dei soliti locali verso Plaça de Espanya scopro che del Belga non si ha notizia da un pezzo, al terzo, nel frastuono indiavolato delle rumbas suonate in un ritmo parossistico, tra scoppi di risate, ragazzini travestiti e discussioni ad elevato tasso alcolico, una cameriera dalla scollatura morbida e umida di sudore mi indirizza al Kursaal, il santuario della vita notturna di Barcellona. Dovevo pensarci. È la Mecca del divertimento, non chiuderebbe mai, neppure sotto le bombe. È anche il locale nel quale lavora Montserràt, la sua donna del momento. È una delle ballerine più carine del locale, la ricordo bene.

Quando varco la soglia sono le quattro e mezza. Pesco Chico, il barista, gli allungo una banconota e chiedo di Didì. Respinge la banconota, affermando a voce un po’ troppo alta che non ne sa nulla. Ma ho colto il movimento degli occhi verso la direzione, Chico lo sa che non deve farmi incazzare e ha trovato il modo di salvare la faccia e darmi l’informazione che cerco. Bravo Chico, i soldi li avrai domani. Spalanco la porta e lo spettacolo che mi si presenta davanti mi sorprende a metà.

“Guarda, guarda chi si vede… Vai di fretta, Didì? Montserràt, è sempre un piacere…”

Abiti da viaggio, valigie, il direttore del Kursaal che sta liquidando una delle sue migliori attrattive. Mi aspettavo i protagonisti, ma non questa fuga precipitosa.

“Vedo che hai deciso di colpo di prenderti una lunga e meritata vacanza. Bravo! Proprio la notte in cui ammazzano il tuo migliore amico. O non lo eravate più così tanto? Cos’è? Non ti voleva più nei suoi affari?”

Mi fissa rabbioso, e io tengo d’occhio lui. È mingherlino, ma pericoloso e svelto. Come capita a tutti gli uomini del Nord, la sua pelle è stata cotta dal sole di Barcellona, ma alla luce della lampada ha un colore terreo. A guardarlo, sembra un agiato uomo d’affari segnato dalla passione per le donnine allegre e vistose. Ma non è così.

“Forse proprio la morte di Pepé mi ha fatto decidere per una vacanza. O pensa invece che…?”

“Io non penso niente. Dimmelo tu, che cosa devo pensare…”

E’ nervoso, sbuffa. Montserràt gli si stringe addosso, con un’occhiata muta lo invita a parlare. Capisco che non hanno paura di me, e neppure delle mie accuse gettate alla cieca. Stanno scappando in fretta da qualcosa di peggio. E io sono un ostacolo. Alza le mani, quasi si arrendesse.

“Io le dico quello che so, ma lei mi lascia andare? Le giuro che non ho ammazzato io Pepé. Del resto, sto qua dal pomeriggio con Montse e decine di persone possono…”

“A parte che potresti aver incaricato qualcuno o pagarti un alibi, tecnicamente sei un testimone, non so se posso permetterti…”

“Commissario, guardi che non ci sarà nessun processo. Scherza?”

“E perché? Che cazzo dici, Didì?”

“Perché sarà l’inferno. Questione di ore… Pepé è stato ammazzato perché ha fatto il doppio gioco in un traffico d’armi con un gruppo di ufficiali fascisti, e se è stato fatto fuori è perché ha scoperto la data della rivolta, che in Africa mi risulta sia già iniziata. E quelli sono tipi seri.”

Resto impietrito. Ormai Didì è un fiume in piena, vuole mettere quanta più strada è possibile tra sé e la Spagna.

“Pepé aveva bisogno di soldi. Debiti di gioco, investimenti sbagliati… il suo deposito faceva gola perché era talmente noto a tutti che nessuno avrebbe fatto caso a un via vai di casse e di fornitori.”

“E un traffico così non ti faceva gola, Didì? Non ti riconosco più…”

“Quella non è roba di malavita, commissario. Quella è roba di servizi segreti. Ho cercato di convincerlo a lasciar perdere, meglio i creditori, ma lui giù duro a dirmi che avrebbe preso i soldi ai fascisti e, una volta scoperta la data, gliel’avrebbe messa in culo, con rispetto parlando.”

“Peccato che con rispetto parlando abbiano messo una bella lama nel cuore a lui. Vai avanti.”

“C’è poco da aggiungere. Da qualche settimana un bel po’ di armi straniere hanno cominciato ad affluire nel suo magazzino. E da lì, alle caserme e al covo di quegli ufficiali, che è…”

“L’hotel Colon…”, mormoro, mentre estraggo il biglietto strappato e macchiato di sangue col profilo stilizzato della caravella. Se l’hanno fatto fuori così, quasi con un’esecuzione, vuol dire che la rivolta è imminente, questione di ore, proprio come predica Didì. E lui sa quello che dice. La stanza prende a girare vorticosamente, a malapena mi accorgo della fuga scomposta del belga e della sua donna. Che vadano al diavolo. Poi, il mio sguardo si posa sul telefono in bachelite nera. Troneggia al centro del tavolo che mi separa dall’attonito direttore del Kursaal.

 

Il fragore del primo sparo rotola lungo la strada come un tuono e mi sorprende con la cornetta in mano, mentre cerco di contattare la Generalidad. Dopo un attimo di silenzio meravigliato, un altro sparo, un’esplosione, una serie di colpi. È iniziata, maledizione. È iniziata e non sono riuscito a impedirlo. Mi precipito fuori, le strade sono improvvisamente deserte, ombre deformate dall’incerto chiarore dell’alba si appiattiscono lungo i muri o corrono a rifugiarsi negli androni dei palazzi. “Los rebeldes! Los rebeldes!”. Il grido rimbalza tra le facciate delle case, dietro alle finestre socchiuse, in strada. Corro. L’eco della sparatoria mi porta in direzione di Plaza de Catalunya. Proprio verso l’Hotel Colon. Impreco malamente mentre urto alcune persone che si precipitano a perdifiato in direzione opposta alla mia. Ma non tutti scappano. Alcuni asaldos e un gruppo di studenti corrono verso gli scontri, impugnando fucili e pistole. Un ragazzo in maglietta e calzoncini ha con sé una cesta di armi rimediate chissà come, cerca di distribuirle ai civili. “Cittadini! Salviamo la Repubblica! Salviamo la Repubblica!”

Ad un tratto la sparatoria si fa più intensa, il crepitio delle armi automatiche cresce. Sono all’imboccatura della piazza, mi getto a terra. “Non correte! State giù!”, provo a gridare. Estraggo la mia arma d’ordinanza, ma non servirà a molto, lo so. C’è una foschia di fumo che aleggia sulla piazza, la facciata imponente dell’albergo è già crivellata di colpi, sbrecciata dalle esplosioni. Là dentro si sono fortificati gli ufficiali fascisti che hanno dato il via alla sommossa. Ma sono stati bloccati. Là dentro c’è il mio uomo, lo so, lo sento. L’assassino di Pepé. Il pensiero che avrei potuto anticipare tutto questo mi anima di una rabbia fredda. Per la frustrazione, esplodo un paio di colpi all’impazzata. Un paio di colpi di fucile si schiacciano contro il muro alla mia destra, gli assediati hanno fortificato le finestre con materassi e cumuli di altro materiale, fanno economia di colpi, ma tirano bene. Arretro, striscio dietro un angolo e resto lì, appoggiato al muro, col fiato corto e il sangue che pulsa nelle tempie. Calma, c’è tempo, mi dico. C’è tempo.

 

E il tempo si è messo a correre, impazzito come i granelli di sabbia portati dal vento. I ribelli hanno tentato una sortita nella mattinata, ma sono stati respinti. Mi sono impossessato del fucile di un miliziano della CNT che mi è caduto accanto con la testa scoperchiata da una raffica di mitragliatrice e ho sparato, sparato fino allo sfinimento. La lotta si accende feroce, improvvisa come gli scrosci di un temporale estivo, poi sembra acquietarsi. Allora si alzano i canti e gli insulti gridati col megafono, dall’una e dall’altra parte.

“Cara al sol con la camisa nueva, que tu bordasti en rojo ayer…”[1].

“Si tu madre quiere un rey, la baraja tiene cuatro: rey de oro, rey de copas, rey de espadas, rey de bastos.”[2].

Le notizie dal resto della città sono incerte. Chi racconta che parte della Guardia Civil si è schierata con gli insorti, chi invece che è rimasta fedele alla Repubblica, c’è stato chi ha annunciato rinforzi in arrivo per i ribelli, subito contraddetto da chi ha sostenuto che nel resto della città i fascisti si stavano già arrendendo. Non abbiamo notizie certe, ma pare che la ribellione sia scoppiata a macchia di leopardo, nelle caserme di Barcellona. Alla fine, però, la sorpresa non è riuscita. Nella luce infuocata del pomeriggio, si leva il suono di una tromba dalle sale dell’Hotel Colon. Ci guardiamo increduli. È il “Cessate il fuoco”. Si arrendono, nessuno arriverà più a salvarli. Qualche straccio bianco penzola dalle finestre. Sono le sei. È passato un’intera giornata di battaglia. Fatico a pensare che sono uscito di casa il giorno prima per iniziare il mio normale turno di poliziotto.

Penetro all’interno dell’albergo insieme ad alcuni uomini della Guardia Civil, passando su cocci di vetro, macerie, chiazze di sangue, cadaveri. Cerco di non tagliarmi, sono andato alla guerra con i mocassini estivi.  I soldati vengono trascinati fuori senza complimenti, disarmati e avviati a spintoni verso i camion, ma è sugli ufficiali che si accanisce la furia della popolazione e delle guardie, che si accalcano all’uscita. Vengono colpiti, strattonati, ingiuriati, le loro divise strappate. “Al muro, subito!”, grida una voce di donna. “Assassini! Alla Fortezza!”. Il loro destino è segnato. Sfilano esangui, tesi, le mani intrecciate sulle teste. Mi faccio avanti, entro. Io ne cerco uno. Uno solo. Esce quasi tra gli ultimi. Ha il volto coperto di polvere, una fasciatura a turbante gli copre una ferita sulla fronte. Nel suo sguardo c’è come un velo, non muove un muscolo, appare distante. La mano destra è coperta da un guanto che lascia fuoriuscire le falangi del medio e dell’anulare.

“Fermati!”

“Lo portiamo alla Fortezza con gli altri ufficiali. Devono essere giustiziati come traditori!”, interviene un graduato.

Un’ombra di ironia sfiora le iridi dell’ufficiale, mentre mi qualifico.

“Sono il commissario Miguel Vazquez. Come ti chiami?”, gli chiedo.

“Sono il capitano Raùl Ortega. Per servirla, commissario…”, risponde con voce strascicata.

“Capitano Ortega, tu sei un assassino. La notte scorsa hai ammazzato Pepé.”

Non è una domanda, ma voglio leggere la conferma nei suoi occhi. Piega la bocca in una smorfia che non saprei se definire sprezzante o sofferente. Getta la testa indietro, in un gesto di sfida.

“Certo, sì. L’ho ucciso io, con due coltellate. La prima alla gola, la seconda al cuore. Cuore di coniglio”, ringhia mimando l’azione con la mano sana. “Era un traditore, stava per rivelare i dettagli dell’operazione. E adesso, siccome ho perso, verrò ucciso anch’io. Ma altri mi vendicheranno, noi non finiamo qui. Capito, commissario? Noi non finiamo… Ma non mi dirai…”

Mi fissa per un istante, poi scoppia in una risata da folle. Una risata che risuona alta, sinistra, e mi ferisce.

“Ma tu… Tu sei venuto fin qui per questo? Per il tuo stupido caso da chiudere? Sei venuto qui, in questo inferno, per la morte di un uomo? Di uno come Pepé?”

Non trovo la risposta. Non riesco a dare un nome a quello che sento, mentre la sua risata beffarda riempie la mia mente, schiaccia ogni pensiero, mi svuota. Il graduato crede che la conversazione sia finita e lo strattona verso il resto del gruppo, rivolgendomi un’occhiata perplessa.

Li guardo allontanarsi e riesco solo a pensare che sì, sono lì proprio per la morte di un uomo. E so già che il ricordo del mio silenzio mi farà male.



[1] “Faccia al sole e la camicia nuova che ieri hai ricamato di rosso…”. Strofa dell’inno falangista.

[2] “Se tua madre cerca un re, il mazzo ne offre quattro: il re di denari, il re di coppe, il re di spade e il re di bastoni”. Strofa di una canzone anarchica.